L’UOMO CHE VOLEVA UCCIDERMI – YOSHIDA SHUICHI

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Autore: Yoshida Shūichi
Editore: Feltrinelli
Collana: I narratori
Traduzione: Gala Maria Follaco
Edizione: 2017
Pagine: 336

Ciao a tutti e bentornati alla nostra rubrica letteraria. Oggi vorrei proporvi un romanzo dal titolo giapponese “Akunin” 悪人, pubblicato originariamente nel 2007 ad opera dello scrittore di Nagasaki Yoshida Shūichi. La versione italiana del romanzo, “L’uomo che voleva uccidermi”, è stata curata da Gala Maria Follaco, già traduttrice di diversi autori giapponesi di fama internazionale, tra cui Banana Yoshimoto. Dal romanzo di Yoshida, che si può tranquillamente inserire nell’ambito del genere thriller psicologico con sfumature noir, è stato tratto anche un lungometraggio dallo stesso titolo, per la regia di Lee Sang-il.

A prima vista, la trama è piuttosto aderente alle tematiche del genere: Ishibashi Yoshino, ragazza di 22 anni e impiegata per una compagnia di assicurazioni, viene ritrovata senza vita in un valico; causa del decesso: strangolamento. Sappiamo soltanto che, prima dell’accaduto, Yoshino avrebbe dovuto incontrare un ragazzo per un appuntamento in un parco nelle vicinanze di Fukuoka. A seguito del misfatto, il presunto assassino si dà alla fuga e le informazioni che i poliziotti rinvengono nel cellulare della ragazza non combaciano con le verità della sua famiglia e delle sue colleghe. La morte della giovane lancia nello sconforto i genitori, ma soprattutto il padre Yoshio, il quale lotterà fino alla fine nel tentativo di vendicare l’amata figlia. Allo stesso tempo, la vicenda ruota intorno a due personaggi maschili, coetanei di Yoshino. Da un lato troviamo il ricco e spregiudicato Masuo Keigo, vero esempio di superficialità e arroganza, che da tempo attirava le attenzioni della ragazza; dall’altro Shimizu Yūichi, giovane dai mille problemi familiari e caratteriali che lavora nella ditta di costruzioni di proprietà dello zio Norio. Yūichi conosce accidentalmente Yoshino attraverso un sito d’incontri, dove la stessa vittima usava passare gran parte del suo tempo adescando numerosi uomini anche molto più maturi di lei.

Detto questo, la vera forza del romanzo non sta nel semplice iter investigativo per poter così giungere alla verità, quanto piuttosto nella dettagliata psicologia dei personaggi che la trama ci presenta. Il termine stesso “psicologico” meglio si addice, nel romanzo, alla figura stessa di Yūichi e, allo stesso tempo, della seconda figura femminile, Mitsuyo. Mitsuyo è una trentenne che convive con la sorella gemella e che, per una serie di eventi, si legherà indissolubilmente a Yūichi: entrambi condividono l’estremo risentimento nei confronti della società moderna, costruita sull’alienazione, sulla solitudine e sulla mancanza di sentimenti puri. Da qui il desiderio di fuga dei due giovani, nel tentativo disperato di vivere insieme qualche briciolo di felicità, essendo lo stesso Yūichi, insieme a Masuo, uno dei principali sospettati per l’omicidio di Yoshino.

In un susseguirsi di eventi a dir poco inaspettati, l’alternanza di innumerevoli punti di vista condurrà il lettore in un universo fatto di atroci dubbi, in ambienti sconosciuti e spettrali, dove tutto sembra perennemente avvolto in una fitta nebbia e la verità, inevitabilmente, fatica a venire a galla. Ma, soprattutto, dove il giudizio che si riserva nei confronti di una persona di fiducia può cambiare dal giorno alla notte. Buona lettura!

(Recensione di Sara Martignoni)

SHANGRI-LA (2002): RIUSCIRE A VEDERE OLTRE LE APPARENZE

Titolo originale  金融破滅ニッボン 桃源郷の人々 Kin’yū hametsu Nippon: tōgenkyō no hitobito

Diretto da           Miike Takashi

Con                     Shō Aikawa, Shirō Sanō, Yū Tokui

Anno                   2002

 

 

Diretto da Takashi Miike , Shangri La è la trasposizione cinematografica del manga del 2002 Tougen Kyou no hitobito (桃源郷の人々 lett. Gli uomini di Utopia) di Aoki Yūji , a sua volta tratto dall’omonimo romanzo dello stesso autore.

La trama si incentra su Shosuke Umemoto, proprietario di una tipografia, che vede la sua attività andare in bancarotta dopo il fallimento del suo principale cliente. Sommerso dai debiti e preoccupato per la sua famiglia e i suoi impiegati, si rassegna al suicidio, ma nel momento in cui sta per compiere l’ultimo estremo gesto la sua strada incrocia quella di una comunità di senzatetto chiamata Utopia. Proprio grazie al loro aiuto, in particolare dei due co-protagonisti (soprannominati capovillaggio e vice-capovillaggio) l’uomo sarà infine in grado di risollevarsi e riprendere in mano la propria vita.

Il film riesce ad affrontare con ironia il dramma che vive il protagonista, piccolo imprenditore costretto ad affrontare il fallimento dell’attività fondata dal padre e portata  avanti per anni con passione, mentre corrotti presidenti di grandi aziende continuano a veder crescere le proprie ricchezze. Lo spettatore è portato così quasi a chiudere un occhio sulla truffa che i protagonisti mettono in atto ai danni di un apparentemente rispettabile presidente d’azienda.

I rapporti umani vengono messi perfettamente a nudo, sia all’interno della famiglia di Umemoto che del gruppo di Utopia, ma anche dell’azienda bersaglio dell’inganno architettato dai protagonisti. Emergono infatti relazioni basate esclusivamente su interessi economici e di convenienza, come quella tra il presidente e la sua segretaria e amante, contrapposte ai sinceri legami di affetto all’interno di Utopia e della famiglia di Umemoto, che nonostante le difficoltà affrontate non si sfaldano. Ampio spazio durante la narrazione è dedicato al capovillaggio interpretato da Aikawa Shō , uomo dal passato oscuro ma pronto a difendere quella che è diventata una famiglia, per quanto inusuale e inconsueta.

Lo stile più crudo e violento, tipico del regista, lascia spazio in questo film a una maggiore ironia, che smaschera le ipocrisie della società  e ci mostra come una realtà all’apparenza degradata possa invece celare molto di più di ciò che ci si potrebbe aspettare. Allo stesso modo un mondo apparentemente rispettabile può infine rivelarsi essere nient’ altro che una maschera vuota.

Capace di strappare una risata ma anche e soprattutto di far riflettere sulla società contemporanea, è un film consigliato e piacevole, una piccola perla davvero da non perdere.

Recensione di Giulia Berlingieri

YOKO TAWADA- IL BAGNO

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Al centro di questo racconto breve vi è una donna, un corpo femminile che ogni mattina si guarda allo specchio e si confronta con una fotografia scattata da un uomo tedesco, Xander, che vuole costruire la sua immagine di donna giapponese. Da questo incipit parte la narrazione con un susseguirsi di metamorfosi che rendono labile il confine tra ciò che è reale e ciò che è surreale, grottesco, sogno. La percezione che la protagonista ha del proprio corpo viene trasmessa proprio attraverso queste trasformazioni, perciò la sua pelle si ricopre di squame e il bagno, inteso come l’uso dell’acqua, diventa un rito di purificazione e simbolo di rinascita.
La perdita della lingua, che è sia perdita della Zunge (l’organo muscolare) che della Sprache (il linguaggio), e il conseguente silenzio della protagonista rappresenta l’impossibilità di trovare corrispondenze tra il proprio sistema di significati e le parole esistenti nelle due lingue parlate (giapponese e tedesco). È alla ricerca di una propria identità che si frantuma nell’incontro/scontro con l’altro che la vede donna e straniera.

Yoko Tawada nasce a Tokio nel 1960 e in seguito agli studi di letteratura si trasferisce ad Amburgo. Scrive romanzi brevi, poesie, pièce teatrali e saggi letterari sia in tedesco che in giapponese. In tutte le sue opere uno dei temi centrali è la percezione e l’alterità del proprio Io e attraverso l’uso di entrambe le lingue cerca di decostruire cliché e immagini stereotipate.

Autore: Yoko Tawada
Traduttore: Lucia Aversa
Curatore: Lucia Perrone Capano
Editore: Ripostes
Collana: Dissomiglianze
Anno edizione: 2003
Pagine: 95 p.

(Recensione di Michela Squadraroli)

HIMIZU – SONO SION

Film che ha colpito buona parte del pubblico e della critica internazionale, Himizu è un film girato dal noto regista giapponese Sono Sion (già regista di Love Exposure) e ambientato nella desolata Fukushima post-disastro nucleare del marzo 2011. Fu lanciato lo stesso anno, prendendo spunto dal manga omonimo ad opera di Minoru Furuya, uscito in realtà una decina di anni prima. Da subito Himizu riscosse enormi riconoscimenti, fino ad essere inserito in concorso al 68° Festival del Cinema di Venezia, dove fu premiata la straordinaria interpretazione del diciannovenne Sometani Shota. Il setting post-apocalittico, la violenza e le conseguenze derivate dall’umano istinto di sopravvivenza fanno di Himizu un vero reportage sulle estreme difficoltà, da parte delle popolazioni colpite, di un ritorno alla normalità.

Lo stesso titolo è già di per sé invitante agli occhi dello spettatore straniero. La parola in katakana ヒミズ è traducibile in italiano con l’espressione nascosto dal sole ed è in questo modo che i giapponesi chiamano l’animale che più di tutti conduce una vita immerso nell’oscurità, ossia la talpa. “Avrei voluto essere una talpa, un himizu“: queste le parole del giovane protagonista Sumida, un ragazzo che, ancor prima del disastro, è vittima di continui soprusi e derisioni da parte del padre; quest’ultimo spesso rimprovera al figlio la sua stessa nascita, evento che ha condotto lui e l’ormai ex moglie alcolizzata ad annullare ogni speranza di condurre una vita normale. Sumida si ritrova a vivere solo in una casetta fatiscente sulle rive di un fiume; suoi unici vicini sono un gruppo di adulti e anziani un po’ strambi che, come lui, hanno perso tutto nel disastro e cercano di tirare avanti alla meno peggio, vivendo in tende o addirittura dentro a barili. In questo clima di perduta innocenza e serenità, Sumida sogna di diventare semplicemente un uomo comune. Allo stesso tempo, in una grande e lussuosa villa, una compagna di classe di Sumida, Chazawa Keiko, vive una vita all’apparenza agiata e normale, ma segnata anch’essa da profonde discordanze tra la ragazza e la madre, anch’ella pentita, come il padre di Sumida, della nascita della propria figlia. Keiko è pazzamente innamorata di Sumida, al punto da trascrivere ogni sua singola parola sui muri della propria stanza, nel disperato tentativo di ritrovare in esse un seppur fioco bagliore di speranza.

In questa dimensione post-apocalittica, i nostri personaggi cercano costantemente un appiglio a quel briciolo di umana bontà e solidarietà che ancora si insinua nei loro corpi, per quanto possibile: l’esempio lampante si ritrova in uno degli anziani “vicini” di Sumida il quale, pur di garantire un futuro al ragazzo rimasto ormai senza genitori, commette l’errore di entrare in un malato giro mafioso nel tentativo di estorcere qualche milione di yen e donarli al giovane. E proprio gli esponenti della yazuka sono solo alcuni dei volti mostruosi della società che il regista introduce nel suo film, in maniera quasi caricaturale, se non addirittura comica o demenziale (in certi momenti sembra quasi di essere catapultati in un tipico film yakuza, per l’appunto); seguono poi killer efferati, pervertiti di ogni sorta, emarginati che hanno reciso definitivamente ogni legame umano. Di conseguenza, lo spettatore non è tenuto a parteggiare per quel tale personaggio, poiché nessuno prevale sull’altro in termini di umanità; non esiste nessun eroe, nel vero senso della parola. In effetti, tutti commettono errori (o, ciò che è peggio, crimini): lo stesso Sumida, incarnatosi ormai in un “paladino della giustizia” al limite dell’esasperazione, arriverebbe addirittura ad uccidere pur di far valere i suoi ideali, nel tentativo continuo di sradicare il male che aleggia nel mondo. L’unica spalla che effettivamente gli rimane è proprio Keiko, la ragazza con la quale inizialmente non riusciva a trovare un dialogo: lei non lo abbandonerà, a costo di dover aspettare anni, poiché la speranza di tornare insieme ad un Giappone pre-3/11 esiste. E’ fioca e lontana, ma esiste.

(Recensione di Sara Martignoni)

SōTAISEI RIRON (相対性理論) – HI FI ANATOMIA


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Sōtaisei Riron (lett. “teoria della relatività”) è una rock band formatasi a Tokyo nel Settembre del 2006.

-Presentazione generale del gruppo

La band, la cui caratteristica principale è forse quella della riservatezza per quanto riguarda la vita privata dei vari membri del gruppo (si sa di fatto molto poco su di loro e, oltre a ciò, le foto dopo i concerti sono quasi sempre proibite), si compone di:

  • 薬師丸えつこ (Yakushimaru Etsuko); alla voce
  • 永井 聖一 (Nagai Seiichi); alla chitarra
  • 真部 脩一 (Mabe Shūichi); al basso
  • 西浦 謙助 (Nishiura Kensuke); alla batteria.

Le influenze musicali adottate da questo quartetto arrivano da generi quali il Kayōkyoku (歌謡曲; genere di musica pop giapponese che viene cantata con un accompagnamento per lo più di stampo occidentale), il Group Sounds (essenzialmente si tratta di un sottogenere del rock giapponese) ed il Post-rock. Una loro peculiarità, che si riflette nei titoli di varie canzoni ed anche nei testi musicali, è quella di creare ed inserire giochi di parole che fanno riferimento (e spesso ridicolizzano) animee/o concetti base della fantascienza. Inoltre, basta dare un ascolto anche veloce ad un qualche loro pezzo per comprendere che, almeno parzialmente, il loro successo si basa sulla voce Moe della cantante (là dove per “moe” s’intende, in senso stretto, un interesse, una forte passione per i personaggi di anime, videogiochi, manga, eccetera…). La loro discografia comprende:

  1. Chiffon Shugi (mini-album di debutto, vincitore del concorso All-Japan)
  2. Hi-Fi Shinsho (secondo album, arrivato settimo nell’Oricon Weekly Chart)
  3. Synchroniciteen (terzo album ed uscito nell’Aprile dell’anno 2010, consiste in una collezione dei numerosi live realizzati fino a quel momento)
  4. Tadashii Sōtaisei Riron (quarto album, rilasciato in ritardo il 27 Aprile del 2011 a causa dello tsunami e del terremoto avvenuti a Tohoku, in Giappone, è composto da remix di vecchie canzoni) 

-Presentazione dell’album

L’album che vorremmo consigliarvi questa volta si intitola Hi-Fi Anatomia (ハイファイ新書; “Hai Fai Shinsho”), uscì il 7 gennaio 2009 e viene musicalmente classificato nel genere dell’Indie pop. Le tracce che lo compongono sono (in ordine) le seguenti:

  1. テレ東 (3:53)
  2. 地獄先生 (3:09)
  3. ふしぎデカルト (3:34)
  4. 四角革命 (3:39)
  5. 品川ナンバー (3:49)
  6. 学級崩壊 (3:01)
  7. さわやか会社員 (4:24)
  8. ルネサンス (3:38)
  9. バーモント・キッス (4:16)

L’album presenta suoni fragili, lievi, che danno un forte senso di riservatezza e di timidezza, come se quasi si vergognassero di emettere anche i suoni più leggeri. C’è inoltre un alone malinconico di fondo che accompagna gran parte del CD, nonostante la graziosa voce della cantante sembri un po’ più ottimistica in confronto ad altri loro precedenti album, come ad esempio Chiffon Shugi. Stilisticamente parlando, possiamo ben notare un’alternanza quasi fissa tra un indie molto delicato ed una giocosa club music, il tutto accompagnato da una mestizia che da quasi assuefazione.

-Conclusione

Può non essere un gruppo molto conosciuto, o per lo meno tra noi italofoni, ma vale la pena dare un po’ di attenzione a questa piccola perla recondita, simbolo di una delicata musicalità giapponese tutta da scoprire. Vi invitiamo dunque a scoprire voi stessi i Sōtaisei Riron ascoltando qualcuno dei brani sopraelencati.

Scritto da Simone Cozza