THE SCYTHIAN LAMB

Un teatro affollato, padiglioni ed infopoint presi d’assalto da un mare di persone armate di badge; può sembrare uno scenario apocalittico ma si tratta del Far East Film Festival (ormai giunto alla sua ventesima edizione) e questa è una giornata di normale amministrazione. Una lunga serpentina di cinefili, giornalisti e addetti stampa in attesa di entrare nella sala proiezioni, noi ne siamo la coda ma la fila si muove più in fretta di quello che ci aspettassimo e finalmente entriamo. Cerchiamo subito di accaparrarci delle buone posizioni con i moltissimi presenti in sala e dopo aver discusso di prospettive ed angoli di visione ottimale ci accontentiamo di posti defilati e abbastanza vicini allo schermo. Scoppia un applauso, il regista è entrato in sala. Daihachi Yoshida ci augura una buona visione in un Italiano spigliato ma semplice ed ha inizio “The Scythian Lamb“.

Il film prende elementi di black comedy e thriller per raccontare la storia di un giovane impiegato comunale (l’idol Ryo Nishikido): questi dovrà assicurare il reinserimento nella società di sei ex detenuti nella piccola città di campagna in cui vive. L’obbiettivo è quello di ripopolare la campagna e instillare nuova linfa vitale in una comunità ormai svuotata di giovani, tacendo però sui dettagli del passato problematico dei sei individui. I toni cupi della pellicola sono aggravati dalla presenza simbolica inquietante di Nororo, un kaiju simbolo della tradizione folkloristica locale, temuto e riverito e la cui statua giganteggia sul villaggio. La leggenda che lo accompagna si intreccia con le vicende dei personaggi, muovendo la trama verso un climax inaspettato.

Tra i sei nuovi cittadini, c’è chi ricadrà nelle vecchie abitudini. C’è anche chi riuscirà a lasciarsi alle spalle il proprio passato e, con l’aiuto della comunità, a ripartire da zero. Un tema ricorrente del film è infatti la rinascita, parafrasi di un ciclo vitale inarrestabile di morte e vita, espresso forse dal titolo del film. L’agnello della Scizia (traduzione italiana del titolo del film) fa riferimento ad una pianta leggendaria asiatica che ha come frutto un agnello legato alla terra per un cordone ombelicale e la quale, una volta perse tutte le foglie, muore assieme all’agnello. Questa icona appare spesso durante il film come memento di quella ciclicità di vita e morte e rinascita.

Il film, come ogni buon thriller, esige che gli occhi restino attaccati allo schermo. Noi, sicuramente, abbiamo pure consumato i braccioli delle poltrone rosse del Teatro Nuovo fino alla conclusione del film. Ma per noi, ahimè, è proprio il finale la pecca più grande: ci è sembrato pigro, anticlimatico, ci ha lasciati con l’amaro in bocca. Tuttavia, per l’attualità del problema presentato, la misteriosa tensione che viene costruita di scena in scena e l’occasionale black comedy, non ci sentiamo proprio di non consigliarne la visione.

Marco Manfroni e Jacopo Corbelli