Gli Ultimi Bambini Di Tokyo – Tawada Yōko || Recensione

Autrice: Tawada Yōko

Traduttrice: Veronica De Pieri

Editore: Atmosphere Libri

Edizione: 2021

In un Giappone distopico, la realtà è capovolta. Gli anziani sono agili e ogni mattina si svegliano di buon’ora per la loro corsettaquotidiana, mentre i bambini sono deboli, a stento riescono a muoversi e mangiare in autonomia. “Per non rattristare [i bambini], data la loro scarsa crescita fisica, il Giorno dello Sport si era trasformato in Giorno del Corpo Umano, e per non ferire i giovani, i quali pur desiderando lavorare non potevano farlo, la Festa dei Lavoratori era diventata il Giorno in cui Essere Grati Anche Solo per la Vita.”

Protagonisti del romanzo sono Yoshiro e suo nipote Mumei, di cui si prende cura con grande dedizione. Mumei, per quanto gracile e malato come tutti i suoi coetanei, è dotato di una forza d’animo e di una resilienza che bilanciano il pessimismo e lo schiacciante senso di colpa del nonno. Perché difatti è colpa della generazione di Yoshiro se si è arrivati alla catastrofe nucleare che ha sovvertito in toto le regole della natura nell’arcipelago e ha portato il governo a chiudere i confini, isolando i propri cittadini da ogni influenza esterna.

Tawada Yōko non ci racconta nel dettaglio cosa sia stato a causare la catastrofe, ma gli echi dell’incidente nucleare di Fukushima del 2011 arrivano chiari e forti. L’ambientazione distopica e i numerosi elementi fantastici, che avvicinano il romanzo al realismo magico, filtrano il trauma della tragedia, e permettono all’autrice di evocare la realtà dei fatti senza menzionarla esplicitamente.

Il tratto peculiare del romanzo è indubbiamente il potere che Tawada Yōko conferisce alla parola. La lingua è usata come mezzo di straniamento e dissonanza, ora per come è manipolatadalla propaganda e dalla rappresentanza governativa, ora per come è usata nella realtà di tutti i giorni. In un Giappone che non può più utilizzare prestiti da lingue straniere (come verosimilmenteaccade quando si instaura un regime politico simile), la generazione di Yoshiro è costretta a dimenticare e trovare dei sostituti ai termini più innocui, quali nomi di cibi o di vestiti. È così che nascono molti degli infiniti giochi di parole che costellano il romanzo. Questi alleggeriscono il peso di una realtà irriconoscibile e al contempo sono insieme a Mumei simbolo di cambiamento e, forse, di speranza per un futuro più limpido.

Recensione di Elena Angelucci