Un posto Tranquillo || Recensione

Autore: Matsumoto Seichō

Traduzione: Gala Maria Follaco

Editore: Adelphi

Edizione: 2020

Matsumoto Seichō, figura chiave del giallo giapponese, ha fatto del noir uno strumento per esplorare l’animo umano sotto la pressione della società moderna. Il titolo del suo romanzo “Un posto tranquillo” è in realtà un inganno: sotto l’apparente calma si agita un abisso.

La storia prende avvio dalla morte improvvisa di Eiko, la moglie del protagonista, Tsuneo Asai, il quale è un funzionario ministeriale metodico e ligio al dovere. Per quanto tragico e doloroso, si tratta di un evento naturale e che non dovrebbe suscitare dubbi… eppure qualcosa stona. Alcuni particolari non tornano: un dettaglio geografico, un luogo inadatto, e la macchina dell’ossessione si mette in moto. Spinto da dubbi crescenti, Asai inizia un’indagine personale che lo conduce in un mondo fatto di sospetti, reticenze e bugie. Il senso di inquietudine cresce pagina dopo pagina.

Il linguaggio di Matsumoto Seichō è oggettivo, spesso quasi burocratico, che riflette perfettamente la mente del protagonista: un uomo preciso, formale, intrappolato nel proprio ruolo sociale. E proprio questo stile freddo, in cui non c’è spazio per il superfluo, amplifica l’effetto drammatico: l’autore non dice che qualcosa è tragico, bensì lo fa percepire al lettore attraverso i gesti, le omissioni, i silenzi. Il romanzo non esplode: scava, insinua, rode.

L’atmosfera del romanzo è claustrofobica. Il mondo esterno è ordinato, ripetitivo, un paesaggio grigio e monotono dove le emozioni vengono soffocate, e proprio per questo diventano pericolose, tanto da sentirle pulsare sotto la superficie. È un noir senza detective, dove la vera indagine è interna.

Matsumoto Seichō affronta con lucidità alcuni dei temi a lui più cari: la doppia faccia della rispettabilità borghese, l’influenza dell’allocentrismo giapponese sul comportamento del singolo individuo, l’ossessione per l’apparenza che ne deriva. L’autore, senza giudizi morali, osserva il viaggio oscuro avviatosi nella mente di un uomo comune spinto al limite, che si confronta con il proprio desiderio di verità e con quello, più torbido, di controllo, mostrando come l’ossessione possa sfociare nella distruzione totale di sé e degli altri.

Matsumoto Seichō ha rivoluzionato il giallo giapponese, trasformandolo in uno strumento critico verso le ipocrisie della società. “Un posto tranquillo” ne è un esempio cristallino: un romanzo breve ma ricco di spunti, dove l’enigma iniziale si trasforma in un’analisi impietosa della psiche. Con uno stile sobrio e realistico, l’autore costruisce un romanzo breve e spietato, in cui la tensione è costante e mai spettacolare. “Un posto tranquillo” è un perfetto esempio del “noir morale” di Matsumoto Seichō, dove il crimine non è tanto un enigma da risolvere, quanto una lente per osservare le crepe della società, restituendo un’immagine cruda e spesso inquietante del Giappone del dopoguerra.

Recensione di Giulia Erriquez

Finché non aprirai quel libro || Recensione

 

Autrice: Aoyama Michiko
Traduzione: Daniela Guarino
Editore: Garzanti
Edizione: 2022

Nato nel 2020 dalla penna di Aoyama Michiko, il romanzo Finché non aprirai quel libro (titolo originale お探し物は図書室まで, Osagashimono wa toshoshitsu made) intreccia armoniosamente le vite di cinque persone che, a prima vista, nulla hanno a che fare l’una con l’altra. Ogni capitolo narra la vita di una di loro, cominciando da Tomoka, giovane donna che ambisce a un lavoro migliore. A seguire, Ryō, che sogna di aprire un giorno un negozio di antiquariato; Natsumi, madre e lavoratrice continuamente impegnata in un tiro alla fune tra i due ruoli; Hiroya, ancora in cerca di una strada da seguire. Infine Masao, un pensionato che si confronta col senso di vuoto lasciato dal termine della carriera.

Età diverse, situazioni e necessità diverse, sogni tanto differenti quanto all’apparenza intangibili. Tramite la voce in prima persona dei personaggi l’autrice riesce a costruire per ogni capitolo dei mondi completi, indipendenti dagli altri e al tempo stesso strettamente legati tra loro da una figura eccentrica e misteriosa, quella della signora Komachi, la proprietaria di un’umile biblioteca nascosta in un quartiere di Tokyo. Infatti, ognuno di loro si ritrova per qualche motivo ad entrare nell’edificio, in cerca di… qualcosa.

Superando un separé sovrastato da una targa che recita “bibliografia” ad aspettarli c’è la signora Komachi Sayuri, che sorprende per la grossa stazza umoristicamente in antitesi con un portamento elegante e una voce soave in grado di ammaliare il cuore. Se, a primo impatto, tutti rimangono colpiti dalla figura della donna, quello che li lascia davvero destabilizzati è una semplice frase, una domanda, che li interroga su una questione altrettanto banale all’interno di un contesto come quello di una biblioteca. Con tono gentile ma imponente, la signora Komachi scruta ognuno di loro e chiede: “Che cosa cerca?”.

Così, ognuno se ne va per la propria strada portando con sé i libri richiesti in prestito e, non senza un velo di titubanza, un libro completamente sconnesso da questi ultimi, infilato tra la pila dalla bibliotecaria senza un apparente motivo. Un errore, o forse la spinta che serviva davvero per pensare, ricordare e scoprire finalmente ciò che il cuore davvero desidera. Una spinta mirata non all’offrire risposte, bensì ad aprire nuove possibili strade da percorrere al di là del vicolo cieco in cui la vita li aveva intrappolati.

Ogni capitolo, nonostante sia incentrato su essenziali storie di quotidianità, riesce deliziosamente a districare la complessità dell’animo umano, ingabbiato in una routine che scivola inesorabilmente verso sogni sepolti e accantonati in favore di una moderna lotta per la sopravvivenza. Finché non aprirai quel libro è un inno alla vita, alla riscoperta di sé, al coraggio di rimettersi in gioco…

E, forse, quello che anche voi state davvero cercando.

Recensione di Rachele Cesarini 

“Ya boy kongming! – The Movie” di Shibue Shūhei || Takamori x FEFF 27

Ya Boy Kongming! The Movie è un adattamento cinematografico live-action, tratto da una serie televisiva ispirata a sua volta al manga Paripi Kōmei di Yuto Yotsuba e Ryo Ogawa. Il film narra l’incredibile avventura nel mondo della musica di Kongming, celebre stratega cinese vissuto durante il turbolento periodo dei Tre Regni (220-280 d.C.), che si ritrova misteriosamente trasportato nel Giappone contemporaneo.

Diretto da Shibue Shūhei, regista prolifico noto per il suo lavoro in ambito pubblicitario e nei videoclip musicali, e sceneggiato da Nemoto Nonji, già autore della serie televisiva originale, il film dà per scontata una certa familiarità con l’universo di Ya Boy Kongming! e, in modo più ampio, con la storia dei Tre Regni.
Zhuge Liang (181-234 d.C.), conosciuto anche con il nome di Kongming, affianca come stratega e manager la giovane cantante pop Tsukimi Eiko (interpretata da Kamishiraishi Moka), e altro personaggio importante e di supporto al protagonista è Kobayashi (Moriyama Mirai), gestore del locale di musica dal vivo dove Eiko si esibisce e appassionato sfegatato dell’epoca dei Tre Regni.
La trama principale si sviluppa lungo una linea piuttosto chiara: tre importanti etichette discografiche – Key Time, SSS e V-EX – decidono di organizzare un grande festival competitivo, una sorta di torneo musicale in cui i loro artisti si sfidano per conquistare il pubblico. Grazie al talento strategico e al costante incoraggiamento di Kongming, Eiko viene scelta da Key Time come rappresentante del gruppo dedicato alle “voci emergenti”. Parallelamente, anche Shin (Utaha), giovane cantante piena di determinazione scoperta mentre si esibisce per strada, entra in gara come nuova promessa della SSS. A spingerla sulla scena è Sima Jun (Kamio Fuju), brillante mente dell’industria musicale e fratello della ragazza. Non a caso, Sima è un discendente diretto di Sima Zhongda, storico rivale di Kongming durante l’epoca dei Tre Regni.
Con l’avvicinarsi della data del grande concerto, Eiko e Kobayashi iniziano a percepire un cambiamento inquietante in Kongming. L’uomo è turbato da sogni ricorrenti: una misteriosa porta situata nel cuore di una foresta di bambù lo chiama, come se segnasse il confine con l’aldilà. Sempre più convinto che ascoltare la voce di Eiko significhi varcare quella soglia e abbandonare il mondo dei vivi, Kongming si trova di fronte a un dilemma profondo e doloroso. Per Eiko, la soluzione appare semplice e drastica: smettere di cantare, una volta per tutte. Ma Kongming non è d’accordo. Convinto che nella voce della giovane risieda il potenziale per realizzare quella pace universale che sogna da sempre, non può permetterle di rinunciare al suo dono.
Mentre il conflitto interiore tra Eiko e Kongming si intensifica, causando sofferenza a entrambi, prende il via il tanto atteso concerto. Sul palco si alternano artisti fittizi e reali, come la boy band &TEAM, la cantante Avu-chn e così via. L’atmosfera è dominata da un’esplosione di J-pop frenetico e ad alto volume, con performance travolgenti di ballerini, cantanti e rapper che mantengono alta l’energia dall’inizio alla fine. Nel frattempo, la narrazione si complica con una serie di colpi di scena legati alle mosse orchestrate dai due strateghi rivali. Alla fine, però, tutto converge nello scontro decisivo: quello tra Eiko e Shin.
La sceneggiatura di Nonji Nemoto, pur cercando di mantenere il tono giocoso e avvincente del manga, spesso cede a cliché narrativi e soluzioni troppo semplicistiche. Il film si muove tra il desiderio di attrarre il pubblico con elementi moderni e la necessità di rispettare la fonte storica, senza mai trovare un equilibrio perfetto tra questi due mondi. La sua fusione di storia e musica è un’idea interessante, ma i temi di crescita e cambiamento che dovrebbero essere centrali nella trama si perdono in una narrazione che non riesce a superare la superficie.
Era chiaro fin dall’inizio cosa aspettarsi: durante la presentazione, l’attore protagonista definisce il film come “una festa dentro al festival”. E in effetti, il tono vivace e scanzonato della pellicola si intreccia perfettamente con l’atmosfera gioiosa del Far East Film Festival, dando vita a una sinergia naturale tra schermo e contesto.

“Rewrite” di Matsui Daigo || Takamori x FEFF 27

Presentato in anteprima mondiale al Far East Film Festival, Rewrite segna una nuova tappa nella carriera di Matsui Daigo, mostrando una maturità artistica che arricchisce ulteriormente il suo percorso registico.

Ispirato a The Girl Who Leapt Through Time e ambientato nella suggestiva città costiera di Onomichi, il film si configura come un sentito tributo al maestro Ōbayashi Nobuhiko, come dichiarato dallo stesso Matsui alla premiere mondiale.
In apparenza, Rewrite si presenta come un classico dramma romantico con elementi di viaggio nel tempo, ma ben presto rivela un impianto narrativo molto più sofisticato e complesso. Ciò che sembrava il preludio a una storia d’amore adolescenziale, si trasforma in una trama articolata e imprevedibile, simile a una partita di scacchi che, inaspettatamente, acquista una dimensione ulteriore. Da quel momento, il film si apre a riflessioni complesse su tempo, scelte e responsabilità.
La trama ruota attorno a Miyuki (interpretata da Ikeda Elaiza), una studentessa delle scuole superiori che incontra Yasuhiko (Adachi Kei), un misterioso compagno di classe proveniente da un futuro distante 300 anni, giunto nel passato per conoscere l’autrice di un romanzo che lo aveva profondamente colpito.
Miyuki custodisce il segreto di Yasuhiko e, durante un’estate ricca di avvenimenti, i due si innamorano. Un giorno, assunta una pillola datale dal ragazzo, Miyuki incontra una se’ di dieci anni più grande la quale le rivela che il libro tanto amato da Yasuhiko è in realtà opera sua, e tutto ciò che deve fare è scriverlo. Il tempo passa e per il giovane giunge l’ora di tornare nel futuro, ma prima di salutarlo lei gli promette di trasformare la loro storia in un romanzo e completare così il ciclo temporale.
Dieci anni dopo, ormai scrittrice affermata, Miyuki torna a Onomichi per incontrare la se stessa del passato e ripetere l’incontro di dieci anni prima. Tuttavia, la Miyuki liceale non si presenta “all’appuntamento”.
Il legame intenso tra due amanti separati da epoche diverse — e forse destinati a non rincontrarsi mai — perde parte del suo pathos quando, durante un incontro tra ex compagni di scuola, Miyuki scopre di non essere l’unica a conoscere il segreto di Yasuhiko, infatti questo avrebbe replicato la stessa storia estiva avuta con la ragazza. Sebbene la narrazione continui a ruotare attorno a Miyuki, è l’irruzione dei vecchi amici nella trama a cambiare tono e direzione al film. In mano meno esperte, questo snodo narrativo avrebbe potuto portare alla confusione, ma Ueda gestisce abilmente la complessità delle sottotrame, mantenendo fluidità e coerenza. I flashback che raccontano i maldestri tentativi di Yasuhiko di rimettere ordine nei suoi salti temporali regalano momenti di leggerezza e ironia.
Il viaggio nel tempo, quindi, non rappresenta un semplice trucco narrativo, ma diventa metafora delle scelte compiute e delle aspettative che pesano su di noi. È un modo per far dialogare il presente con le sue molteplici possibilità future, più che con il passato. Al centro del film non c’è tanto il desiderio di modificare ciò che è stato, quanto il bisogno urgente di vivere pienamente ciò che è, con tutte le sue imperfezioni.
La peculiarità del film sta nel modo in cui Matsui evita tanto l’eccesso drammatico quanto la retorica sentimentale, optando per un linguaggio sobrio e scambi misurati. Rewrite è un film discreto ma incisivo, che riesce a parlare al cuore senza alzare la voce. Con lucidità e sensibilità, Matsui firma un’opera che non cerca effetti speciali, ma guarda all’interiorità e alla crescita personale. In un’epoca che premia chi arriva sempre primo, Rewrite ci ricorda che il tempo è anche comprensione, lentezza e accettazione di sé.

“See you tomorrow” di Michimoto Saki || Takamori x FEFF 27

See You Tomorrow (ほなまた明日, Honamata ashita) ha aperto la penultima giornata del FEFF portando sullo schermo la voce sensibile e originale della giovane regista Michimoto Saki (道本咲希). Pur non essendo alla sua primissima esperienza dietro la macchina da presa, con questo film si conferma una presenza da tenere d’occhio per la lucidità con cui racconta le emozioni.
La pellicola esplora con delicatezza e profondità lo scontro, spesso silenzioso, tra aspirazioni personali e relazioni affettive fragili, dipingendo il ritratto di una generazione sospesa tra sogni coltivati con ostinazione e sentimenti nascosti dietro una maschera di leggerezza.
Protagonista è Nao (interpretata da Tanaka Makoto), studentessa di fotografia appassionata di street photography, che ogni giorno si perde per le strade di Osaka in cerca di momenti da catturare con la sua reflex. La vicenda si snoda principalmente tra le mura dell’accademia d’arte che Nao frequenta, dove stringe un legame con tre compagni di corso – Sayo (Shigematsu Risa), Tada (Akiyama Takuro) e Yamada (Matsuda Ryota) – anche loro desiderosi di diventare fotografi.
Il talento cristallino di Nao emerge fin da subito, tanto da suscitare l’invidia dei colleghi e perfino del professore (Okuchi Ken), combattuto tra l’ammirazione e un sottile risentimento.
Ciò che colpisce nel film è la scelta stilistica della regista: Michimoto evita consapevolmente ogni deriva sentimentale, preferendo una narrazione asciutta, essenziale e brutalmente onesta, molto vicina all’esperienza reale dei giovani che si trovano a fare i conti con il peso delle scelte e del futuro.
Il ritmo è pacato, i dialoghi misurati, le scene spesso statiche: è il silenzio, più delle parole, a dare significato e profondità alle relazioni.


Se è vero che a tutti noi è concesso di sognare in grande, è altresì vero che solo in pochi riescono a trasformare tali sogni in realtà. Nao fa parte di questa élite: non per arroganza, ma per una determinazione lucida e una predisposizione naturale al successo.
Proprio questa sicurezza, mai ostentata ma sempre evidente, finisce per incrinare i rapporti con i compagni, che la percepiscono fredda, distante e impietosa. È forse questa la chiave del suo successo?
Il film riflette su temi universali – tempo, rimpianto, l’irrisolto – con una sensibilità rara nel cinema contemporaneo. Paradossalmente, Nao è l’unica a non cambiare: resta uguale dall’inizio alla fine. Eppure, è proprio lei, nella sua staticità, a innescare il cambiamento negli altri, in particolare in Yamada, che si scopre incapace di confrontarsi con il talento e il passato, e alla fine sceglie la fuga.
See You Tomorrow non offre soluzioni facili. Piuttosto, ci invita a riconoscere ciò che siamo e ad accettare le nostre possibilità, anche se imperfette, anche se lontane da quelle degli altri. Una riflessione sincera e senza fronzoli sull’identità, sulla rivalità e sul bisogno di essere visti davvero.