Quando sette studenti universitari, accomunati da una grande passione per il mystery, decidono di trascorrere una settimana sull’isola di Tsunojima – che solo qualche mese prima era stata teatro di una tragedia familiare –, mai si sarebbero aspettati di diventare a loro volta protagonisti di una vicenda simile a quelle che leggono. O forse, qualcuno di loro sì.
Una serie di delitti minuziosamente architettati, storie d’amore che si intrecciano tra passato e presente e spiccate capacità intellettive di detective improvvisati sono gli ingredienti principali di quest’opera, un perfetto tributo a un pilastro del genere giallo, cioè Dieci piccoli indiani di Agatha Christie.
Da appassionata di gialli e specialmente di quelli di Agatha Christie, leggere questo libro è stato un vero piacere. L’ispirazione è ben presente, ma Ayatsuji è stato in grado di rendere questo libro suo, permettendo al lettore di immergersi in panorami tipicamente nipponici che fungono da sfondo a eventi che lasciano con il fiato sospeso fino all’ultima pagina.
Tantissimi sono gli elementi di novità riguardanti la trama, ma anche lo stile, che si discostano dal libro di Christie e che conferiscono all’opera originalità: le inquietanti targhette che assegnano a ognuno dei sette ragazzi un ruolo nella vicenda, la storia dei precedenti inquilini della Casa decagonale, le indagini esterne compiute da chi sull’isola non è mai stato presente e tanto altro.
La narrazione è molto scorrevole e permette di seguire distintamente eventi che spesso si sovrappongono, o si spostano, alternandosi, dalla terraferma alla Casa. La tensione che caratterizza i gialli arriva alla mente e al cuore del lettore grazie alle scelte lessicali e sintattiche, che fanno accrescere la curiosità di sapere sempre di più e di voltare pagina per proseguire con la lettura.
Ogni personaggio, sebbene non siano presenti lunghe e dettagliate porzioni di testo descrittive, è stato caratterizzato bene attraverso i dialoghi, le gestualità e le scelte compiute. È un elemento che ho apprezzato tanto: spesso, quando ci sono tanti personaggi da gestire, l’aspetto introspettivo viene meno, ma non in questo caso.
Le interazioni fra di loro, specialmente dal momento in cui uno di loro viene ritrovato senza vita nel suo letto, sono l’aspetto più interessante a mio avviso. I dubbi, la preoccupazione, la diffidenza e certe volte persino gli scatti d’ira e la totale perdita di controllo di sé che ognuno prova mettono chiaramente a repentaglio il loro rapporto pacifico e amichevole di membri di un circolo del crime. C’è chi si avvicina e chi si allontana, chi prende in mano le redini della situazione e chi si lascia andare in preda al panico. Sono emozioni reali, tangibili, che avvicinano i personaggi al lettore e gli ricordano l’elemento umano in un contesto terrificante, dove proprio l’umanità sembra non esistere.
Anche l’epilogo è stato pensato saggiamente, lasciando quel velo di mistero, il tipico finale aperto, che offre spunti di riflessione e un ampio spazio per immaginare un seguito a quelle vicende.
I delitti della Casa decagonale è un libro a dir poco coinvolgente e affascinante, un libro che, quando prende forma nella mente di noi lettori, è più vivo che mai, il che lascia una sensazione quasi adrenalinica a mano a mano che la vicenda si infittisce.
È senza dubbio una delle letture migliori che ho fatto quest’anno, uno dei pochi libri che rileggerei subito dopo averlo finito. O che forse desidererei cancellare dalla memoria per rileggerlo come se fosse la prima volta.
Assolutamente consigliato a chi ha bisogno di un po’ di sano brio per sfuggire dal fastidioso blocco del lettore, dal momento che sarà impossibile posarlo.
Kano Kazami, una giovane traduttrice presso l’università di Tokyo, si ritrova a ricordare l’estate più surreale ma al contempo magica della sua vita. Yoshimoto Banana, invece, dimostra la sua maestria nella narrazione dei grandi e complessi fili conduttori di ogni vicenda umana: i sentimenti.
Kazami non ha nemmeno vent’anni quando viene a conoscenza della morte suicida di Takase Sarao, uno scrittore giapponese da tempo residente negli Stati Uniti, attraverso Shoji, il suo amante dell’epoca. Quest’ultimo, anche lui traduttore di professione, le racconta come Takase stesse scrivendo un’opera intitolata N.P. ma che, data la sua scomparsa prematura, era stata pubblicata con solamente novantasette dei cento racconti previsti.
In possesso del novantottesimo, inedito racconto è proprio Shoji che, nell’atto di tradurlo dall’inglese al giapponese, muore suicida a sua volta, lasciando Kazami disorientata e impaurita di fronte all’aura negativa che aleggia intorno a N.P. Anni dopo il tragico evento, lungo il cammino di Kazami passeranno i figli dello scrittore, Otohiko e Saki, due gemelli dal rapporto tanto profondo quanto complicato, con cui la giovane instaurerà un’amicizia unica.
A completare il quadro, però, sarà Sui, una mistica figura che si scoprirà avere un legame a dir poco singolare con i gemelli e con Takase. Sui, infatti, possiede il racconto numero novantanove, che rappresenta il penultimo gradino nella scalata verso il completamento dell’opera. Qual è, dov’è il centesimo e ultimo racconto che costituisce N.P.? Quando il sole lascia spazio a degli scorci di Via Lattea e lo scoppiettio di un falò sulla spiaggia accompagna il frastuono delle onde che si infrangono sul bagnasciuga, Kazami trova la risposta. Ed è tutto “di una bellezza violenta, da impazzire”.
Un libro a dir poco mozzafiato, che permette di far percepire al lettore, sulla propria pelle, l’arancione, il rosa, il giallo e il verde dell’estate, che funge da sfondo a tematiche decisamente meno colorate. La scrittura risulta dolce e scorrevole, ogni parola ha il suo peso ed è posta nello spazio corretto, concorrendo a rendere quest’opera una delle migliori di Yoshimoto. Le riflessioni sui temi che stanno a cuore all’autrice – amore, omosessualità, vita, morte – non sono mai banali, ma intrisi di una prospettiva che conduce il lettore alla riflessione.
È impossibile non affezionarsi ai personaggi, che contemporaneamente sfuggono alla piena comprensione e si lasciano cogliere, diventando un espediente per concretizzare emozioni che riguardano tutti gli esseri umani, in diverse fasi della vita. Sui è sicuramente il personaggio più interessante sotto questo punto di vista: prima esuberante poi più timida e chiusa, un attimo forte e quello dopo fragile, lascia il segno nel cuore di Kazami, e un po’ anche in quello di chi legge, come se fosse l’amica di una vita che vediamo cadere e rialzarsi, evolvere e maturare, tendendole una mano che sappiamo già che non, ma su cui lei stessa sa di poter sempre contare. E per cui è grata.
Un titolo imperdibile, inizialmente faticoso da elaborare, ma il classico “da leggere almeno una volta nella vita”.
“Per ottenere una cosa, bisogna sacrificarne un’altra”. Un insegnamento che l’anonimo postino, protagonista di quest’opera, riceve dalla madre in tenera età, ma che ben presto segnerà la settimana più bizzarra della sua vita. Nonché una delle ultime.
Dopo la diagnosi di una malattia terminale, infatti, il protagonista viene travolto da una serie di emozioni talmente intense e diverse tra loro che gli risulta difficile persino pensare alla classica lista delle “dieci cose da fare prima di morire”. È tutto estremamente surreale e, come se non bastasse, il Diavolo in persona è venuto a trovarlo. Con una sgargiante camicia hawaiana addosso e incapace di fare l’occhiolino, il Diavolo gli fa un’offerta: un oggetto da far sparire da questo mondo in cambio di un giorno di vita in più. Ovviamente, l’oggetto in questione dovrà essere scelto proprio da chi propone questo scambio. Il giovane postino, quindi, non ha altra scelta: un giorno di vita in più è una proposta davvero invitante in una situazione come la sua, per cui accetta. E così spariscono prima i telefoni, poi i film, e ancora gli orologi. Ma i gatti? Se sparissero loro, significa che anche l’amato gatto del protagonista, Cavolo, non ci sarebbe più. Ne varrebbe davvero la pena?
Kawamura Genki, con ironia e semplicità, e persino un tocco di cultura pop, invita a riflettere sul valore che diamo alla nostra vita, specie quando viene messa alle strette, senza banalizzare. Benché la narrazione risulti, per la maggior parte, scorrevole e ricca di battute, sono tanti i momenti in cui la serietà si fa spazio per lasciare il segno, con affermazioni che a primo acchito suonano quasi scontate, ma che, se analizzate con un occhio più attento, sanno colpire nel profondo.
Se i gatti scomparissero dal mondo ha il valore di un caldo abbraccio quando ci si confronta con una realtà troppo grande e complessa, che pare non essere affrontabile da soli. Una realtà, però, che Kawamura ha saputo rendere accessibile a tutti con la sua maestria: primi amori, amicizie, affetti familiari sono solo alcuni dei nodi che si sciolgono nel momento in cui il protagonista compie un viaggio dentro sé stesso e si scopre, si conosce. La chiave di tutto, quindi, è la maturazione, il prendersi le proprie responsabilità, il confrontarsi con cosa – o chi – non c’è più ma che nonostante questo ha ancora un forte impatto sul quotidiano.
Un libro che difficilmente si riesce a posare, e soprattutto da rileggere più volte, quando la vita lo chiede.
Ricordi di mia madre, è un romanzo autobiografico composto da Inoue Yasushi, uno dei maggiori scrittori del Novecento, ed è costituito da tre testi intitolati rispettivamente sotto i fiori, raggi di luna e sulla neve. L’autore racconta gli ultimi momenti della vita della propria madre, che a causa dell’avanzare dell’età, inizia gradualmente a manifestare cedimenti fisici e mentali che la condurranno alla quasi totale perdita di memoria. In questo testo struggente l’attenzione viene posta sulla comune tragedia della vecchiaia estrema: Inoue Yasushi narra in modo dettagliato e realistico alcuni avvenimenti accaduti negli ultimi anni prima della scomparsa della madre, evidenziando come quest’ultima sia andata incontro ad un progressivo ma repentino deterioramento mentale e fisico. Una vita cancellata dalla demenza senile è quello che conduce il lettore in un viaggio straziante verso la comprensione delle conseguenze naturali della vecchiaia. Fin dalle prime pagine è evidente come l’intero racconto sia avvolto da un denso velo di consapevolezza che accompagna Inoue Yasushi e i suoi fratelli: perfino i componenti più giovani della famiglia sono in grado di comprendere fin da subito quali siano gli inevitabili effetti dell’anzianità.
Sono note private e familiari che però mostrano come la madre dell’autore non sia più in grado di riconoscere ciò che la circonda, figli compresi. Ella inizia a vivere in un “mondo tutto suo” come se fosse improvvisamente ritornata bambina: si sveglia durante la notte, ripete sempre le stesse frasi, si lamenta se non viene accontentata e addirittura scambia i propri figli per camerieri. La donna sviluppa ossessioni e stranezze che renderanno la situazione ancora più difficile per i familiari, che si sosterranno reciprocamente nell’ accudirla. Qui il tema sociale della vecchiaia viene affrontato come fase delicata e conclusiva dell’esistenza umana e allo stesso tempo, viene sottolineato l’amore filiale e il rispetto verso i propri genitori.
Yokomizo Seishi è considerato uno dei più grandi giallisti giapponesi dell’era Shōwa, noto principalmente per il suo personaggio “Kindaichi Kōsuke”, protagonista di ben 77 romanzi.
“La maledizione degli Inugami” è il decimo di questi celebri romanzi. Kindaichi si ritrova coinvolto nella lotta della famiglia Inugami per ottenere l’eredità del defunto capofamiglia, Inugami Sahee. Sarà proprio lui, grazie al suo intelletto e anche alla sua eccentricità, a scoprire la verità dietro i violenti omicidi che avranno luogo nella residenza familiare a Nasu.
Sin da subito si può notare come Kindaichi sia una figura molto particolare, certamente sveglia e intuitiva, ma che si presenta in maniera sciatta e trasandata: si veste distrattamente con i primi abiti che trova, ha la brutta abitudine di grattarsi i capelli e quando è molto emozionato finisce spesso per balbettare. Tutte queste caratteristiche creano l’immagine di un inetto e certamente non quella di un detective professionista, ma è proprio grazie a questo contrasto che le sue qualità risaltano ancora di più nel corso della storia.
Kindaichi si dimostra sempre un passo avanti rispetto sia alla famiglia Inugami, che ai suoi colleghi della polizia, restando però un personaggio molto umano che ben si contrappone alla violenza a cui deve assistere.
La questione della famiglia Inugami è ciò che mette in moto lo svolgersi della trama sin dalle prime pagine e Yokomizo stabilisce subito una certa atmosfera di tensione tra i vari membri della famiglia, tutti pronti a sovrastare l’altro per ottenere l’eredità. La complessità del caso non toglie però spazio ai personaggi, che attraverso gli occhi di Kindaichi vengono anche analizzati nella loro psicologia, concentrandosi molto sui personaggi femminili più importanti, come la fredda Matsuko e l’introversa Tamayo.
Il narratore onnisciente, inoltre, si intromette spesso durante la storia per porre attenzione a determinati eventi e comportamenti, facendo intendere la loro futura importanza oppure spingendo il lettore a riflettere meglio su cosa ha appena letto. Fortunatamente questi interventi non distolgono l’attenzione del lettore, anzi, fanno l’effetto opposto e dimostrano una certa sicurezza dell’autore nella propria scrittura e nella qualità del mistero che propone.
Mistero, fra l’altro, che gioca molto bene con le aspettative di chi sta leggendo e che riesce a mantenersi intrigante fino all’ultimissima riga della storia.
Lo stile di Yokomizo risulta molto scorrevole, d’impatto e a tratti anche divertente. Riesce molto bene a passare da momenti comici con Kindaichi, a descrizioni piuttosto precise e crude degli omicidi a cui deve assistere. La differenza tra l’eleganza della villa familiare degli Inugami e la strana brutalità a cui fa da palcoscenico è quasi paradossale, sbagliata e fuori luogo. L’ottimismo e l’eccitazione di Kindaichi mentre lavora al caso sono gli elementi che impediscono di appesantire troppo l’atmosfera della trama e che garantiscono degli stacchi tra scene più rilassate e altre più tese.
“La maledizione degli Inugami” è una storia intricata e inaspettata ma che riesce sempre ad essere chiara, scorrevole e facile da seguire per il lettore, grazie anche ai commenti di Yokomizo che sfondano la quarta parete della finzione narrativa. Essenzialmente, è un mistero davvero coinvolgente.
Una chiave che apre uno spiraglio di luce su una Tokyo arida e buia. È questa l’immagine con cui si conclude 9 Souls, film del 2003 diretto da Toyoda Toshiaki. La pellicola, insieme a Pornstar e Blue Spring, rappresenta l’ennesimo tentativo del regista di rappresentare alcune tra le categorie più marginalizzate all’interno della società giapponese. Le “9 souls” del titolo sono i protagonisti di questa storia: nove detenuti riescono a evadere dal carcere in cui stanno scontando la loro pena, intraprendendo un viaggio alla ricerca di una grande somma di denaro che un loro compagno di cella avrebbe nascosto anni prima nella capsula del tempo di un liceo.
I protagonisti, uomini di tutte le età colpevoli dei crimini più disparati, si ritrovano a dover convivere all’interno di un van rubato durante la loro fuga e a spostarsi continuamente alla ricerca del prossimo pasto. Il tono comico che caratterizza le situazioni al limite dell’assurdo che i detenuti si ritrovano ad affrontare lascia però un gusto amaro nella bocca dello spettatore: ben presto infatti il passato dei protagonisti viene rivelato mostrando storie di abusi, negligenza e abbandono a condizioni di vita degradanti e alienanti. Il gruppo, inizialmente compatto, inizia a separarsi man mano che i suoi membri tentano di rimettere a posto le vite che hanno lasciato in pausa a causa della loro condanna; molti di questi tentano di rimediare a errori passati, altri cercano di farsi giustizia da soli in un mondo che ha voltato loro le spalle.
È proprio la condizione di invisibilità a cui sono relegati questi individui a rappresentare il tema centrale del film: Toyoda ci mostra infatti un mondo ancora più crudele e freddo di quello delle celle in cui i nove detenuti hanno vissuto, un mondo in cui persone che si sono macchiate di crimini efferati ottengono successo e ricchezza lasciando che siano altri, più poveri o soli, a pagare le conseguenza delle loro azioni. In questo senso, i costumi buffi che i protagonisti si ritrovano a indossare per non farsi riconoscere celano un significato ancora più profondo: l’unico modo che questi uomini hanno per vivere nella società è camuffarsi, vivendo nell’ombra e ritrovandosi in situazioni grottesche in cui, nel tentativo di mimetizzarsi, risultano essere ancora più fuori posto. L’unica alternativa ad abiti e parrucche da donna, baffi e occhiali finti, è la loro uniforme carceraria bianca, un marchio indelebile che non permette di distinguerli l’uno dall’altro.
Con 9 Souls Toyoda vuole criticare l’incapacità e il disinteresse del Giappone nel guidare i detenuti a un percorso di riabilitazione attraverso cui venire reintegrati nella società: questi individui vengono infatti abbandonati, ostracizzati, costretti a ripetere perpetuamente un ciclo di violenza che è necessario per la loro sopravvivenza. La pellicola offre un ritratto estremamente umano dei detenuti, mostrando le fragilità e i desideri di persone che per tutta la vita non sono state ascoltate.
La chiave potrebbe quindi rappresentare l’empatia, l’unico strumento attraverso cui accedere a un futuro più consapevole e attento ai bisogni anche di questi individui; una chiave che verrà passata di generazione in generazione fino a quando un giorno riuscirà ad aprire una porta su un mondo migliore.
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