Ricordi di mia madre – Inoue Yasushi || Recensione

Autore: Inoue Yasushi
Traduzione: Lydia Origlia
Editore: Adelphi Edizioni
Edizione: 2022

Ricordi di mia madre, è un romanzo autobiografico composto da Inoue Yasushi, uno dei maggiori scrittori del Novecento, ed è costituito da tre testi intitolati rispettivamente sotto i fiori, raggi di luna e sulla neve. L’autore racconta gli ultimi momenti della vita della propria madre, che a causa dell’avanzare dell’età, inizia gradualmente a manifestare cedimenti fisici e mentali che la condurranno alla quasi totale perdita di memoria. In questo testo struggente l’attenzione viene posta sulla comune tragedia della vecchiaia estrema: Inoue Yasushi narra in modo dettagliato e realistico alcuni avvenimenti accaduti negli ultimi anni prima della scomparsa della madre, evidenziando come quest’ultima sia andata incontro ad un progressivo ma repentino deterioramento mentale e fisico. Una vita cancellata dalla demenza senile è quello che conduce il lettore in un viaggio straziante verso la comprensione delle conseguenze naturali della vecchiaia. Fin dalle prime pagine è evidente come l’intero racconto sia avvolto da un denso velo di consapevolezza che accompagna Inoue Yasushi e i suoi fratelli: perfino i componenti più giovani della famiglia sono in grado di comprendere fin da subito quali siano gli inevitabili effetti dell’anzianità.

Sono note private e familiari che però mostrano come la madre dell’autore non sia più in grado di riconoscere ciò che la circonda, figli compresi. Ella inizia a vivere in un “mondo tutto suo” come se fosse improvvisamente ritornata bambina: si sveglia durante la notte, ripete sempre le stesse frasi, si lamenta se non viene accontentata e addirittura scambia i propri figli per camerieri. La donna sviluppa ossessioni e stranezze che renderanno la situazione ancora più difficile per i familiari, che si sosterranno reciprocamente nell’ accudirla. Qui il tema sociale della vecchiaia viene affrontato come fase delicata e conclusiva dell’esistenza umana e allo stesso tempo, viene sottolineato l’amore filiale e il rispetto verso i propri genitori.

Recensione di Ludovica Vergaro

Il detective Kindaichi e la maledizione degli Inugami – Yokomizo Seishi || Recensione

Yokomizo Seishi è considerato uno dei più grandi giallisti giapponesi dell’era Shōwa, noto principalmente per il suo personaggio “Kindaichi Kōsuke”, protagonista di ben 77 romanzi.

“La maledizione degli Inugami” è il decimo di questi celebri romanzi. Kindaichi si ritrova coinvolto nella lotta della famiglia Inugami per ottenere l’eredità del defunto capofamiglia, Inugami Sahee.  Sarà proprio lui, grazie al suo intelletto e anche alla sua eccentricità, a scoprire la verità dietro i violenti omicidi che avranno luogo nella residenza familiare a Nasu.

Sin da subito si può notare come Kindaichi sia una figura molto particolare, certamente sveglia e intuitiva, ma che si presenta in maniera sciatta e trasandata: si veste distrattamente con i primi abiti che trova, ha la brutta abitudine di grattarsi i capelli e quando è molto emozionato finisce spesso per balbettare. Tutte queste caratteristiche creano l’immagine di un inetto e certamente non quella di un detective professionista, ma è proprio grazie a questo contrasto che le sue qualità risaltano ancora di più nel corso della storia.

Kindaichi si dimostra sempre un passo avanti rispetto sia alla famiglia Inugami, che ai suoi colleghi della polizia, restando però un personaggio molto umano che ben si contrappone alla violenza a cui deve assistere.

La questione della famiglia Inugami è ciò che mette in moto lo svolgersi della trama sin dalle prime pagine e Yokomizo stabilisce subito una certa atmosfera di tensione tra i vari membri della famiglia, tutti pronti a sovrastare l’altro per ottenere l’eredità. La complessità del caso non toglie però spazio ai personaggi, che attraverso gli occhi di Kindaichi vengono anche analizzati nella loro psicologia, concentrandosi molto sui personaggi femminili più importanti, come la fredda Matsuko e l’introversa Tamayo.

Il narratore onnisciente, inoltre, si intromette spesso durante la storia per porre attenzione a determinati eventi e comportamenti, facendo intendere la loro futura importanza oppure spingendo il lettore a riflettere meglio su cosa ha appena letto. Fortunatamente questi interventi non distolgono l’attenzione del lettore, anzi, fanno l’effetto opposto e dimostrano una certa sicurezza dell’autore nella propria scrittura e nella qualità del mistero che propone.

Mistero, fra l’altro, che gioca molto bene con le aspettative di chi sta leggendo e che riesce a mantenersi intrigante fino all’ultimissima riga della storia.

Lo stile di Yokomizo risulta molto scorrevole, d’impatto e a tratti anche divertente. Riesce molto bene a passare da momenti comici con Kindaichi, a descrizioni piuttosto precise e crude degli omicidi a cui deve assistere. La differenza tra l’eleganza della villa familiare degli Inugami e la strana brutalità a cui fa da palcoscenico è quasi paradossale, sbagliata e fuori luogo. L’ottimismo e l’eccitazione di Kindaichi mentre lavora al caso sono gli elementi che impediscono di appesantire troppo l’atmosfera della trama e che garantiscono degli stacchi tra scene più rilassate e altre più tese.

“La maledizione degli Inugami” è una storia intricata e inaspettata ma che riesce sempre ad essere chiara, scorrevole e facile da seguire per il lettore, grazie anche ai commenti di Yokomizo che sfondano la quarta parete della finzione narrativa. Essenzialmente, è un mistero davvero coinvolgente.

Recensione di Biagio Furno

9 Souls – Toyoda Toshiaki || Recensione

Regia: Toyoda Toshiaki 

Anno: 2003 

Durata: 119 minuti 

Genere: drammatico 

Attori principali: Harada Yoshio, Matsuda Ryuhei, Chihara Kōji, Shibukawa Kiyohiko, Itao Itsuji, Kitamura Kazuki, Yamada Mame, Suzuki Takuji, Dairaku Genta 

Una chiave che apre uno spiraglio di luce su una Tokyo arida e buia. È questa l’immagine con cui si conclude 9 Souls, film del 2003 diretto da Toyoda Toshiaki. La pellicola, insieme a Pornstar e Blue Spring, rappresenta l’ennesimo tentativo del regista di rappresentare alcune tra le categorie più marginalizzate all’interno della società giapponese. Le “9 souls” del titolo sono i protagonisti di questa storia: nove detenuti riescono a evadere dal carcere in cui stanno scontando la loro pena, intraprendendo un viaggio alla ricerca di una grande somma di denaro che un loro compagno di cella avrebbe nascosto anni prima nella capsula del tempo di un liceo.

I protagonisti, uomini di tutte le età colpevoli dei crimini più disparati, si ritrovano a dover convivere all’interno di un van rubato durante la loro fuga e a spostarsi continuamente alla ricerca del prossimo pasto. Il tono comico che caratterizza le situazioni al limite dell’assurdo che i detenuti si ritrovano ad affrontare lascia però un gusto amaro nella bocca dello spettatore: ben presto infatti il passato dei protagonisti viene rivelato mostrando storie di abusi, negligenza e abbandono a condizioni di vita degradanti e alienanti. Il gruppo, inizialmente compatto, inizia a separarsi man mano che i suoi membri tentano di rimettere a posto le vite che hanno lasciato in pausa a causa della loro condanna; molti di questi tentano di rimediare a errori passati, altri cercano di farsi giustizia da soli in un mondo che ha voltato loro le spalle.

È proprio la condizione di invisibilità a cui sono relegati questi individui a rappresentare il tema centrale del film: Toyoda ci mostra infatti un mondo ancora più crudele e freddo di quello delle celle in cui i nove detenuti hanno vissuto, un mondo in cui persone che si sono macchiate di crimini efferati ottengono successo e ricchezza lasciando che siano altri, più poveri o soli, a pagare le conseguenza delle loro azioni. In questo senso, i costumi buffi che i protagonisti si ritrovano a indossare per non farsi riconoscere celano un significato ancora più profondo: l’unico modo che questi uomini hanno per vivere nella società è camuffarsi, vivendo nell’ombra e ritrovandosi in situazioni grottesche in cui, nel tentativo di mimetizzarsi, risultano essere ancora più fuori posto. L’unica alternativa ad abiti e parrucche da donna, baffi e occhiali finti, è la loro uniforme carceraria bianca, un marchio indelebile che non permette di distinguerli l’uno dall’altro.

Con 9 Souls Toyoda vuole criticare l’incapacità e il disinteresse del Giappone nel guidare i detenuti a un percorso di riabilitazione attraverso cui venire reintegrati nella società: questi individui vengono infatti abbandonati, ostracizzati, costretti a ripetere perpetuamente un ciclo di violenza che è necessario per la loro sopravvivenza. La pellicola offre un ritratto estremamente umano dei detenuti, mostrando le fragilità e i desideri di persone che per tutta la vita non sono state ascoltate. 

La chiave potrebbe quindi rappresentare l’empatia, l’unico strumento attraverso cui accedere a un futuro più consapevole e attento ai bisogni anche di questi individui; una chiave che verrà passata di generazione in generazione fino a quando un giorno riuscirà ad aprire una porta su un mondo migliore. 

Recensione di Francesca Marinelli

La cucina degli incontri della signora Megumi – Yamaguchi Eiko || Recensione

Autore: Yamaguchi Eiko

Traduzione: Raffaele Papa

Editore: Rizzoli

Edizione: febbraio 2024

La cucina degli incontri della signora Megumi è il primo libro pubblicato in Italia dell’autrice Yamaguchi Eiko, vincitrice del Matsumoto Seichō Literary Prize. Questo romanzo di narrativa contemporanea tratta della storia di Tamazaka Megumi, una donna, ormai cinquantenne e vedova, che un tempo era stata una famosa indovina conosciuta con il nome di Lady Moonlight. A causa di una tragedia che toccherà la sua vita privata e la sua carriera, Megumi decide di dedicarsi alla cucina, diventando proprietaria di un shokudō, un modesto locale specializzato in oden, la tipica zuppa giapponese. Quali sono le motivazioni che hanno spinto la signora Megumi a cambiare drasticamente vita? Il piccolo ristorante è attraversato da una calorosa atmosfera familiare che invita i clienti abituali a condividere le loro storie e preoccupazioni, mentre sorseggiano il sakè e gustano i deliziosi piatti preparati da Megumi.

All’interno dell’opera si possono trovare ricche descrizioni, estremamente dettagliate, dei piatti proposti dal ristorante: ostriche al curry, bistecca di taro, bambù con vongole saltate al burro, riso con salsa, tamagoyaki ripieni e infine l’oden, il piatto speciale che tutti i clienti amano. Il cibo viene utilizzato come veicolo letterario per la conoscenza della cultura giapponese: in Giappone l’arte culinaria denominata washoku ha una tradizione molto antica, legata all’alternarsi delle stagioni. I due elementi fondamentali sono l’estetica e l’armonia degli ingredienti; Megumi sperimenta diverse combinazioni e solo quando è soddisfatta procede ad inserire il nuovo piatto nel menu stagionale del suo ristorante. Così come nelle opere di Ogawa Ito e Banana Yoshimoto, anche Yamaguchi Eiko decide di far emergere il potere collettivo della cucina giapponese.

Inoltre, Megumi è una donna caratterizzata da una spiccata sensibilità che decide di mettere a disposizione le sue “doti” per aiutare gli altri, siano quelle culinarie o quelle da indovina. I clienti che popolano il suo locale instaurano un forte legame con lei: raccontano eventi di vita privata, chiedono consigli, e cercano tutti di sentirsi in qualche modo meno soli tra le mura di questo caloroso ed intimo shokudō.

Yamaguchi Eiko, tramite la sua scrittura ricca di particolari, è in grado di offrire al lettore delle vere e proprie fotografie mentali di ciò che descrive: è come se si potessero percepire direttamente le sensazioni provate da chi sta assaporando i piatti del menu della signora Megumi.

Recensione di Ludovica Vergaro

Shōso Strip – Shiina Ringo || Recensione

Considerata una dei più importanti musicisti del Giappone contemporaneo, Shiina Ringo è un’artista caratterizzata dalla sua profonda conoscenza di svariati strumenti e generi musicali, e la capacità di fonderli con maestria ed eleganza. Il suo secondo album intitolato “Shōso strip” e uscito nel 2000 è uno dei dischi più rappresentativi della sua versatilità artistica. Scritto quando l’autrice aveva solo 21 anni e composto di 13 tracce, l’album spazia da pop rock tradizionale a pezzi elettronici e sperimentali, riuscendo comunque a mantenere un’identità forte e coesa.

Il primissimo brano, “Kyogen-shō”, cattura immediatamente l’attenzione grazie alla chitarra elettrica distorta, il flauto campionato e la batteria che entra in scena con una certa prepotenza. Anche la voce di Shiina Ringo stessa fa di tutto per farsi notare con una performance carica di energia; il timbro squillante della sua voce si addice perfettamente al caos sonoro che l’accompagna. La canzone successiva, “Yokushitsu”, capovolge completamente l’atmosfera, presentandosi come un pezzo quasi completamente elettronico e da una composizione molto più eterea e non convenzionale.

L’alternarsi di pezzi più convenzionali e pezzi più sperimentali è una costante dell’intero disco. “Gips” e “Honnō” sono tra i brani più vicini ad un tipico stile pop, ma neanche in questi Shiina può resistere dal distorcere batteria, chitarra e anche la propria voce. “Identity” e “Stoicism” si presentano invece come due completi opposti: Se la prima è un vero e proprio pezzo Noise rock dalla forte aggressività e slancio ritmico, la seconda è una breve traccia elettronica a tratti inquietante, dove la voce della cantante si ritrova travolta di effetti sonori, quasi come se fosse un sintetizzatore.

Il settimo brano, “Tsumi to batsu”, divide l’album in due metà e si fa riconoscere per la sua unicità rispetto alle tracce restanti. Dal punto di vista strumentale è abbastanza in linea con il resto del disco, ma si distingue per lo stile e per la performance di Shiina. Rifacendosi al titolo (In italiano “Delitto e castigo”), ci viene proposto una sorta di ballata rock stile anni ‘70 e Shiina canta con un’enfasi e un tono drammatico assente dal resto dell’album. Sentendola, si può facilmente immaginarla come una scena di un film poliziesco, tanto che è carica di tensione.

In conclusione, “Shōso Strip” è un album incredibilmente vario ma che riesce con successo a raccogliere tutte le capacità di Shiina ringo come compositrice e polistrumentista in un singolo disco di 55 minuti.

Recensione di Biagio Furno

La foresta nascosta – Radhika Jha || Recensione

“Non sarebbe mai dovuto tornare, pensò amareggiato, ma ormai era troppo tardi”

“La foresta nascosta” è la storia di Kōsuke, uomo giapponese trasferitosi a New York per lavoro. La sua vita tranquilla viene sconvolta dalla notizia della morte del padre, con cui non aveva più contatti da anni; decide di tornare in Giappone e si trova costretto ad ereditare il tempio Shintoista di famiglia. Diviso tra i propri doveri di Kannushi e la sua vita negli Stati Uniti, Kōsuke cerca con grandi difficoltà di trovare una soluzione che possa soddisfare tutti, sé stesso incluso.

La trama è caratterizzata da un misto tra romanzo psicologico ed elementi tipici del giallo. Il dilemma interiore di Kōsuke è reso ancora più complesso dall’entrata in scena di personaggi  quasi surreali come Akemi e Andō, e dall’irruzione della Yakuza che cerca di comprare il tempio di famiglia. L’incontro di questi elementi narrativi è però gestito molto bene, al punto da intensificare i momenti più intimi ed emotivi che coinvolgono gli attori principali: nello specifico, oltre al protagonista, la sua compagna Kirsten e sua sorella Asako sono dei personaggi molto veri, con cui è facile empatizzare, anche quando commettono errori.

Nel corso della storia, Kōsuke cerca di raccattare da qualunque personaggio che incontra le memorie di suo padre, scoprendo che tipo di persona fosse, cosa pensava di lui mentre era all’estero e come ha affrontato la vita e le difficoltà economiche del santuario fino alla sua morte. Nonostante sia un personaggio già morto a inizio storia, ha un’influenza costante e duratura sugli eventi e suo figlio non può permettersi di ignorare la cosa, deve anzi scontrarsi costantemente con le proprie mancanze, la sua assenza da casa, e il rimpianto di non aver mai riallacciato i rapporti con suo padre.

L’occhio di Kōsuke per l’architettura è un ulteriore elemento fondamentale per la storia. Non solo nota con attenzione ogni singolo dettaglio del proprio tempio e degli altri che visita, ma la sua esperienza negli Stati Uniti gli fa riconoscere quanto il Giappone contemporaneo stia cambiando. Molti templi della sua infanzia sono o stati distrutti, o riammodernati in grattacieli all’occidentale e lui si scopre profondamente ferito dalla cosa. Nonostante abbia vissuto per almeno sette anni a New York, un simbolo della “modernità”, appena mette piede in Giappone diventa quasi un conservatore.

Con questo libro, l’autrice riflette su come una parte della nostra terra natia resti sempre con noi, anche inconsciamente. Il Kōsuke in Giappone è completamente diverso da quello in America. Radhika Jha stessa, infatti, ha vissuto per anni in Giappone: ha visto lo scontro tra tradizione e moderno, ha visto i templi Shintoisti venire venduti per profitto, e probabilmente ha vissuto anche il conflitto interiore che coinvolge l’intero romanzo dall’inizio alla fine.

Il conflitto che caratterizza l’intera storia non riceverà mai una risposta definitiva. L’unica persona che può davvero sapere cosa vuole è Kōsuke stesso e nessun altro. 

Recensione di Biagio Furno