Il gatto venuto dal cielo

 

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IL GATTO VENUTO DAL CIELO- HIRAIDE TAKASHI

Einaudi, Super ET editore, pp 132, 10,50 euro

Traduzione di Laura Testaverde

“Il gatto venuto dal cielo” divenuto best seller in Francia, Inghilterra e Stati Uniti, è un romanzo scritto da Hiraide Takashi, critico e poeta Giapponese. Ambientato nel tardo autunno del 1988, il romanzo ha per protagonisti un uomo e una donna, entrambi lavorano nell’editoria e vivono la loro quotidianità senza particolare ardore. Ma la loro vita, scandita da una monotonia quasi deprimente e da ritmi di lavoro spossanti, viene stravolta dall’arrivo di un gatto. “Eppure, scrivere non può in alcun modo significare portar via. Anche la scrittura, come i gatti, supera i confini della proprietà, senza rispettare limiti.”: è con questa metafora che Hiraide Takashi ci introduce alla figura di Chibi , una gattina che gironzola spesso nel vicolo adiacente la casa di cui i protagonisti sono gli affittuari. Chibi quasi come fosse una figlia acquisisce sempre più importanza per la coppia, riportando un equilibrio che era ormai precario nelle loro vite. Tuttavia, più che una figlia, Chibi viene percepita come fosse la custode di strani segreti. Oltre alla gatta, anche la piccola dépandance in cui vivono e il giardino adiacente diventano pilastri indiscussi nella vita della coppia. Tanto che la volontà della vecchia proprietaria di vendere il terreno a causa della forte crisi speculativa che colpì il Giappone negli anni ’90, causerà non pochi risentimenti alla coppia , che pur controvoglia dovrà prendere delle decisioni e fare i conti con la triste verità: in fondo Chibi non è la loro gatta. Ma sopratutto, si può realmente possedere un gatto? Un gatto, può essere il depositario delle nostre ansie e paure? Hiraide Takashi, mette in risalto come tutti noi abbiamo bisogno di condividere la nostra quotidianità con qualcuno, che sia un essere umano o….. un gatto! Amanti dei gatti e non, questo libro parla dritto al cuore, con una leggerezza disarmante, di tutti i nuovi e sorprendenti modi con cui possiamo conoscere noi stessi e riscoprire chi ci sta vicino.

(Recensione di: Flavia Cernigliaro)

AOKI TAKAMASA – RV8

aoki

Tracks:

1 – RHYTHM-VARIATION 01       6:26

2 – RHYTHM-VARIATION 02       6:10

3 – RHYTHM-VARIATION 03       8:24

4 – RHYTHM-VARIATION 04       10:08

5 – RHYTHM-VARIATION 05       7:25

6 – RHYTHM-VARIATION 06       7:10

7 – RHYTHM-VARIATION 07       5:58

8 – RHYTHM-VARIATION 08       7:32

Etichetta: Raster-Noton (Maggio 2013) genere: minimal

 

Amanti del groove, questo disco è manna per le vostre orecchie! Ci potremmo fermare qui con questa recensione, sarebbe sufficiente da sola a descrivere “RV8”, l’opera che il dj giapponese AOKI (in maiuscolo, sic) Takamasa ha rilasciato nel 2013 per la tedesca Raster-Noton, la stessa etichetta per cui sono apparse le splendide collaborazioni – che vi invitiamo caldamente ad ascoltare – fra Alva Noto e il buon Ryuichi Sakamoto. In questa accattivante esortazione d’apertura è racchiuso sostanzialmente tutto il disco in questione, essenziale ma dinamico, tanto semplice da risultare più complesso di quanto sembri, come tutta la musica più interessante e ben realizzata.

AOKI Takamasa (classe 1976, nativo di Osaka ma da qualche tempo residente a Berlino) è un artista specializzato nella produzione di musica attraverso il laptop, apparecchio che costituisce tutto il suo armamentario essendo AOKI, per sua stessa ammissione, a digiuno di nozioni che gli permettano di utilizzare qualunque altro strumento. AOKI però con il laptop ci sa fare e questo disco ne è un’ottima dimostrazione. Vale la pena soffermarsi sul titolo e sulla scaletta, che se non fossero così calzanti si potrebbero benissimo accusare di scarsa creatività: tutte le tracce portano lo stesso titolo, “RHYTHM-VARIATION”, distinte dal relativo numero di posizione in scaletta, mentre il nome del disco non ne è che l’acronimo seguito dal numero di tracce totali, “RV8”. Anche questo fatto basterebbe di per sé a descrivere il disco in maniera esaustiva, ma qualcosa dobbiamo pur anticiparvi altrimenti questa recensione perderebbe ragion d’essere… Effettivamente l’opera consta di otto pezzi, tutti di durata abbastanza consistente, ognuna sostenuta da un groove che AOKI lascia sfogare per alcuni minuti prima di introdurre delle variazioni sullo stesso. Queste modificazioni possono avvenire per un accumulo della materia ritmica – l’entrata in scena di nuovi beat – o per la diversa disposizione del precedente materiale. La modulazione ritmica avviene però in maniera discreta, priva eventi eclatanti, sicché ai primi ascolti è persino difficile notarla e il groove sembra proseguire immutato per tutta la durata del pezzo, senza contare che la timbrica dei suoni componenti il tappeto ritmico è molto simile per tutti i brani. Ci vogliono dunque più di un paio di ascolti attenti per familiarizzare con le “variations” del titolo ed è per questo che, come avevamo anticipato, in “RV8” c’è più complessità che in apparenza. Non immaginate però un disco monotono e cerebrale; AOKI organizza la scaletta in modo che la fruizione dell’opera risulti più accattivante, alternando tracce dal mood aggressivo (#1, #2) ad altre in cui l’atmosfera si fa più calda e meditativa (#3, #6), oppure fredda e straniante (#5, #7), trovando anche l’occasione per una digressione dal sapore quasi danzereccio (#4). Oltre al groove, AOKI si serve anche di un accompagnamento più “musicale” che contribuisce a caratterizzare ogni traccia del proprio immaginario: si tratta di materiale sonoro minimale ma allo stesso tempo essenziale quanto la controparte ritmica nell’economia dell’opera. La giusta miscela di questi due elementi dà vita a un’opera di grade fascino e carattere, il cui unico difetto (se dobbiamo necessariamente scovarne uno) consiste forse nell’eccessiva durata dei pezzi, che diventa quasi monstre per un disco del genere nella quarta traccia. In conclusione non possiamo che ribadire l’invito rivolto in apertura a tutti gli appassionati di elettronica che trovano nel ritmo un elemento imprescindibile per i loro ascolti. Dunque, let’s groove!

Link Youtube: https://www.youtube.com/watch?v=4I4iqn5s3JI

Recensione di: Lorenzo Chiavegato

CHIHEI HATAKEYAMA & DIRK SERRIES, “THE STORM OF SILENCE”

CHIHEI HATAKEYAMA & DIRK SERRIES

imageThe Storm of Silence

Tracks:

1 – Kulde             7:54

2 – Uvaer            10:32

3 – Fryst              12:43

4 – Hvit                10:55

 

Etichetta: Glacial Movements (gennaio 2016)

 

Genere: ambient

Disquisire di ambient non sempre è impresa facile, specie se il recensore si impone di riportare un’impressione il più possibile “oggettiva” riguardo all’opera da analizzare. Questo accade perché talvolta la materia sonora giunge a tali punti di rarefazione che si arriva a chiedersi cosa ci sia esattamente da recensire, su cosa in concreto si stia lavorando. È normale porsi questi quesiti, soprattutto per l’ascoltatore non abituato ad avere a che fare con un genere così restio ad ogni forma di etichettatura e che per comodità viene definito come “ambient”, trattandosi di una denominazione generalissima che fagocita opere fra loro in realtà diversissime, e che rientra nell’ancor più confuso calderone dell’elettronica. Si tenga dunque conto di questa premessa “for dumbs” – detto con simpatia e con una punta di solidarietà – ogni qual volta ci si imbatterà in una recensione che parla di un disco “ambient” perché in rete è pieno di ciceroni in grado di utilizzare la più astrusa retorica per descrivere qualcosa che all’ascolto risulta nel concreto molto più semplice. Molto spesso capita che si adulterino delle mere sensazioni personali con un linguaggio pseudo-filosofico per dare allo scritto un senso di “scientificità”: il compito di una recensione però dovrebbe essere – secondo la nostra umile opinione – di fornire agli interessati uno strumento utile che possa far loro capire se vale o meno la pena ascoltare l’opera recensita. Certo la recensione può anche essere un commento analitico dell’opera, una sorta di “parafrasi” che cerchi di individuare i motivi principali del disco e darne un parere personale, ma ci sono limiti letterari che non andrebbero superati, in fondo non si tratta della Divina Commedia.

Accennavamo prima a quanto nell’ambient la materia sonora possa diventare impalpabile e sfuggente, mettendo così il recensore in difficoltà su come rendere ai lettori un’opinione efficace riguardo al disco. Fortunatamente non è questo il caso di “The Storm of Silence”, la più recente fatica congiunta di due maestri dell’ambient-drone, Chiei Hatakeyama, uno tra i più pregevoli artisti giapponesi della scena elettronica internazionale, e il belga Dirk Serries, che tra gli appassionati del genere non ha certo bisogno di presentazioni – tra i suoi pseudonimi ricordiamo il prolifico Vidna Obmana. Certo si tratta di un disco più complesso di quanto appaia al primo approccio, e necessita di più ascolti per cogliere lo sviluppo emotivo del suono che si cela dietro l’infamante giudizio “beh ma è tutto uguale”. In effetti le quattro tracce del disco sono costituite tutte da una struttura molto semplice: lunghi bordoni fanno da sfondo al dialogo fra synth, chitarra effettata e archi sintetici. Le tracce hanno ognuna una durata considerevole e la narrazione sonora si svolge infatti con grande lentezza. Il punto fondamentale è proprio il fatto che vi sia uno sviluppo, una mutazione del discorso “musicale”, che resta però fondamentalmente limitata al piano emotivo. Infatti, come abbiamo già detto, a livello prettamente strumentale non vi sono variazioni significative ma il tono generale subisce una sorta di incupimento che si acuisce dalla prima alla quarta composizione.

Nonostante la copertina – uno splendido scatto di Bjarne Riesto – evochi un paesaggio glaciale, “Kulde” costruisce un panorama sonoro dai toni caldi e luminosi (a chi scrive ricorda la stupenda “Dawn Will Reveal Itself”, la descrizione sonora di un’alba contenuta nella collaborazione di Dirk Serries con Stratosphere, “In a Place of Mutual Understanding”, Projket, 2013), che avvolge subito l’ascoltatore in un’esperienza intimista ed evocativa. Dopo quasi otto minuti, il suono si affievolisce e qualche secondo di silenzio – procedimento che si ripeterà per ogni composizione – ci introduce alla seconda traccia, “Ulvaer”. L’atmosfera comincia a raffreddarsi e la sensazione generale è appunto quella che la materia sonora andrà ulteriormente evolvendosi nel corso del disco. Infatti nella successiva “Fryst” tutto si fa ulteriormente più malinconico e glaciale: si tratta forse dell’apice emozionale dell’opera, sottolineato anche dai suoi quasi tredici minuti di durata. “The Storm of Silence” si chiude con “Hvit”, che forse smorza in parte il pathos ma solo per offrire un suono più solenne e distaccato, quasi che l’intensità della musica si sia sublimata attraverso una sorta di catarsi.

Se inizialmente è difficile cogliere questo dinamismo in un’opera che al primo impatto sembra del tutto statica, esso emerge con prepotenza ascolto dopo ascolto, ma soltanto se ci si immerge completamente nell’esperienza musicale, evitando di relegare un genere gratificante come l’ambient a semplice “musica da sottofondo”, anche se forse resta il genere migliore a svolgere questa funzione. Un disco quindi davvero pregevole che conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, il talento di Hatakeyama e al tempo stesso dimostra come anche Dirk Serries, dopo decenni di militanza nella scena, resti un artista di primo livello.