Kurosawa Kiyoshi parte 1 || Meijin Film Directors

Bentornati su Takamori! Questa è Meijin film directors, la rubrica sui registi giapponesi e oggi vi parleremo di Kurosawa Kiyoshi.

Kurosawa Kiyoshi nasce a Kobe nel 1955 e comincia ad interessarsi al mondo cinematografico fin dalle scuole superiori, quando gira i primi mini film. Studierà poi sotto la guida del critico di cinema Hasumi Shigehiko all’Università Rikkyo di Tokyo. 

Uno dei primi film horror che lo porteranno alla fama è Sweet Home del 1989, da cui sarà tratto l’omonimo videogioco a cui poi si ispirerà la celebre serie video-ludica Resident Evil. Continuò a dirigere film horror, sviluppando tecniche che resero i suoi film iconici sul panorama dell’horror giapponese.

Nel 2008 decise di staccarsi dall’horror portando sul grande schermo Tokyo Sonata, un dramma familiare che gli vinse il premio della giuria al Festival del Film di Cannes.

Se volete saperne di più su Kurosawa Kiyoshi, continuate a seguirci per conoscere la sua filmografia!

Un affare di famiglia || Recensione

Regia: Kore’eda Hirokazu

Anno: 2018

Durata: 121 min

Genere: drammatico

Attori principali: Kiki Kirin, Lily Franky, Andō Sakura

Un affare di famiglia” di Kore’eda Hirokazu (titolo originale: 万引き家族 Manbiki kazoku) vince la Palma d’oro al Festival di Cannes nel 2018 e racconta di una famiglia particolare che vive nella periferia di Tokyo ai margini della società. Una sera tornando a casa il padre Osamu e il figlio Shota trovano una bambina e decidono di portarla a casa dove li aspetta il resto della “famiglia”. Osamu e Nobuyo sono una coppia di fatto e abitano nella casa di una donna anziana, Hatsue, che chiamano “nonna” insieme a un’altra ragazza, Aki, e a Shota. La famiglia vive compiendo piccoli furti e imbrogli, ma anche lavorando: Osamu è un lavoratore a giornata, Nobuyo lavora per una lavanderia industriale e Aki in un sex club, Hatsue sostiene invece il gruppo tramite la pensione del defunto marito. La loro vita fila piuttosto liscia fino a quando la bambina portata a casa, Yuri, non compare sul telegiornale in un annuncio di scomparsa.

Il film lo possiamo considerare diviso in due atti e dal momento dell’annuncio di scomparsa la storia comincia a farsi più pesante rispetto alla quasi commedia iniziale. Il regista ci porta nello spaccato della società giapponese evidenziando la differenza tra le classi sociali e sembra inoltre volerci dire che la famiglia è quella che ti cresce e ti dà qualcosa e non è solamente dettata dai legami di sangue.

Recensione di Chiara Girometti

Wagakki Band || Takamori J-Sound

Bentornati a un altro appuntamento con Takamori J-Sound! In questo short vi parleremo dell’artista giapponese Wagakki Band.

Wagakki Band con 7 album pubblicati dal 2013 ad oggi unisce gli strumenti e le sonorità della musica tradizionale Giapponese con il rock di stampo occidentale in un suono unico e inimitabile.

Continuate a seguirci per altri contenuti sulla musica giapponese!

House in the tall grass || Recensione

Artista: Kikagaku Moyo

Anno: 2016

Formazione: Kurosawa Go – voce, batteria, percussioni

Katsurada Tomo – voce, chitarra

Kotsu Guy – basso

Daoud Popal – chitarra

Kurosawa Ryu – sitar, tastiere

Sicuramente i Kikagaku Moyo sono uno dei gruppi più internazionali che il Giappone abbia tirato furori negli ultimi quindici anni. Fondati nell’estate 2012, il quintetto ha iniziato come busker per le strade di Tokyo. Ha riscontrato già dai primi lavori un riscontro positivo sia da parte del pubblico che dalla critica, suscitando oltretutto la curiosità degli appassionati oltreoceano. Nel corso di pochi anni sono stati in grado di evolversi e di maturare le loro idee musicali.

A differenza dei primi lavori – l’omonimo “Kikagaku Moyo” (2013) e “Forest of Lost Children” (2014) – dal sound avvolgente, sperimentale ma ancora acerbo, il consolidamento è avvenuto nel 2016 con l’uscita, per la label indipendente Guruguru Brain, di House in the tall Grass.

Basterebbe solo il titolo e la copertina per capire in che mondo veniamo immersi: la “casa” che rappresenta noi ascoltatori e “l’erba alta”, ovvero la musica che ci accompagnerà in una piacevole ed elegante perdizione.

Rispetto ai dischi precedenti il sound pare più strutturato e meno confusionario con canzoni, sebbene molto diverse, perfettamente coerenti tra di loro dando un senso di linearità all’interno del discorso musicale.

Quello che fanno i Kikagku Moyo in sostanza è ripensare in chiave moderna il mondo prog/psichedelico anglosassone degli anni ’60/70, per poi contaminarlo con il dream pop e l’indie del nuovo millennio, dando così vita non a un banale omaggio ai classici ma a un’opera con una propria identità.

La band si diverte a ripensare la forma canzone, con l’obiettivo non tanto di creare singoli di grande impatto o necessariamente accattivanti ma di proporre un’atmosfera rarefatta e lo fa prendendosi il loro tempo, diluendo il più possibile le composizioni, attraverso arpeggi di chitarra e sitar trasognanti e una ritmica tribale; una formula che ricorda i grandi gruppi americani come i Velvet Underground, i Doors e i Mazzy Star.  In tutto ciò la voce androgina di Katsurada Tomo è un bisbiglio che sbiadisce nella melodia, uno spettro gentile che si aggira nella “Tall Grass”.

Tra le canzoni che spiccano ricordiamo: Kogarashi (una parola giapponese che sta ad indicare il freddo e pungente vento autunnale) con la voce di Katsurada che si ripete all’infinito come un mantra; la lunga Silver Owl che dondola lentamente fino a esplodere con riff zeppeliniani – gli stessi guizzi di hard rock che ritroviamo nella più compatta Dune. Infine, Melted Crystal è un brano che porta quasi all’ipnosi perché è costituito da un unico tema di chitarra che si ripete per oltre cinque minuti, dove l’unico elemento di variazione sono i lenti cambi di dinamica delle percussioni.

I Kikagaku Moyo realizzeranno successivamente altri tre album di ottima fattura, ma questo “House in the tall grass” rimane un’opera cardine della loro carriera che li ha consacrati come una delle realtà più rilevanti di tutto il panorama neo-psichedelico.

Recensione di Martino Ronchi

Sono Shion parte 2 || Meijin Film Directors – I Registi di JFS

Benritrovati! Questa è Meijin Film Directors, la rubrica Takamori sui registi giapponesi, e oggi continuiamo a parlarvi di Sono Shion.

Suicide Club” del 2002 è la prima parte della trilogia del suicidio, nonchè il primo vero successo di Sono.
Un gruppo di detective è alla ricerca di un movente che si cela dietro un’incredibile quantità di suicidi.
Si scoprirà la presenza di un sito internet che tiene conteggio del numero delle morti avvenute e quelle future.
A metà fra un thriller e uno spionaggio, questo film punta apertamente il dito contro la società nipponica, rea di deumanizzare i propri figli attraverso soprattutto la repressione scolastica.

Nel 2008 Sono realizza un’opera mastodontica di quasi 4 ore, “Love exposure” è un lavoro complesso e denso che mescola un’infinità di generi, dallo splatter alla commedia, passando per il dramma senza mai stridere fra loro.
Mettendo alla berlina ogni forma di religione e riflettendo su tematiche come la repressione sessuale, il regista dà vita a un film coinvolgente quanto folle e, allo stesso tempo, una delle storie d’amore più originale del nuovo millennio.

La casa di produzione Nikkatsu recluta alcuni registi di spicco con l’idea di celebrare il “pinku eiga“, un genere soft-core che andava in voga negli anni 70′. Sono coglie l’occasione per darne una propria rilettura e realizza così, nel 2016, “Antiporno“.
Questo mediometraggio, caratterizzato da scenografie sgargianti e sorprendenti risvolti metanarrativi, smaschera la mentalità maschilista del Giappone odierno e analizza l’apparente emancipazione di cui gode la donna nel XXI secolo.

Se volete scoprire le vite e le opere di altri registi giapponesi, continuate a seguirci! A presto!