Daijōbu 3 kumi

Cineteca JFS!

Oggi vi presentiamo una storia toccante e che fa riflettere. È ispirato alla biografia di Ototake Hirotada, affetto da una sindrome non comune che è la tetra-amelìa. Racconta il suo percorso da insegnante e, allo stesso tempo, quello nei cuori degli allievi a lui affidati.

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Gonin-ish (五人一首) – Naishikyō Sekai (内視鏡世界)

IL GRUPPO

I Gonin-Ish (五人一首 goninisshu) sono una band progressive death metal giapponese, formatasi a Tokyo nel 1996. Il nome deriva dall’antologia di poesie Ogura Hyakunin Isshu (小倉百人一首), raccolta di 100 waka di 100 diversi autori della letteratura classica giapponese. Non a caso, i testi del gruppo risentono di una forte influenza letteraria.
Nati come una cover band della formazione degli Anekdoten, i Gonin-Ish esordiscono nel 2000 con l’omonimo album di debutto.

La band è composta da 5 membri:

  • Matsuoka Anoji, voce e chitarra ritmica
  • Momota Masashi, tastiere
  • Takahashi Fumio, chitarra solista
  • Oyama Tetsuya, basso
  • Yamaguchi Gaku, batteria

 

NAISHIKYŌ SEKAI

Oggi recensiamo l’album Naishikyō Sekai, secondo ed ultimo album della band, pubblicato nel 2008 presso l’etichetta Season Of Mist.

Si compone di 6 tracce, per una lunghezza totale di 55 minuti:

  1. 常闇回廊 – Eternally Dark Corridor                          
  2. ナレノハテ – Na Re No Ha Te
  3. 斜眼の塔 – The Spiral Temple
  4. 人媒花 – Parasite Flower
  5. 無礙の人 – The Free Man
  6. 赫い記憶 – The Crimson Memory

 

L’album fonde le sonorità classiche del progressive metal ad un sound estremamente violento, con spiccate influenze death e black metalIl risultato è un opera difficilmente catalogabile: alle strutture complesse e ai tempi dispari tipici del progressive si aggiungono le sezioni ritmiche martellanti del metal estremo. Parte del merito per questo particolare sound va certamente alla frontman Matsuoka Anoji, capace di spaziare con grande facilità dalle voci pulite al growl ed allo screaming. Da segnalare inoltre l’interessante utilizzo delle tastiere con un semplice suono di pianoforte, abbinamento piuttosto inusuale con i muri di chitarre distorte, a cui l’album non rinuncia in alcun brano. L’ascoltatore si ritrova così ad avere in primo piano linee melodiche di pianoforte di sapore quasi neoclassico, per poi scavare più a fondo e scoprire un inferno di chitarre distorte e doppia cassa.

L’album si apre con Eternally Dark Corridor (Tokoyami Kairou), strumentale di due minuti che mette subito in chiaro le intenzioni della band: drumming aggressivo, tempi dispari ed ipertecnicismi negli assoli di Takahashi e Momota. Segue l’introduzione epica di Na Re No Ha Te (Narenohate), brano in cui entra in scena Matsuoka, che mescola da subito voce pulita (in tutto e per tutto femminile e giapponese) e growl di stampo death metal. Il brano, lungo e complesso, alterna sezioni strumentali di pianoforte ad assoli mozzafiato ed utilizzo massiccio di doppia cassa. Gloriosa la conclusione, con una bella armonizzazione tra tastiere e chitarre.

 

 

Decisamente sinistra l’atmosfera che ci introduce a The Spiral Temple (Shagan No Tuo): un brano dalla potenza distruttrice inaudita, in cui appaiono evidenti le contaminazioni death e black metal. Segue poi uno dei punti più alti dell’album: Parasite Flower (Jinbaika). In un costante crescendo, la band ci prende per mano e gradualmente ci trascina fino al cuore della canzone, una grande opera progressive. Da segnalare in particolare la sezione solistica di chitarra e la maestosa conclusione. The Free Man (Muge No Hito) è il singolo di maggiore successo dell’album, l’unico brano accompagnato da un video musicale. Dopo un’interessante introduzione di percussioni, dalle sonorità quasi tradizionali, il brano non sembra sfociare mai da nessuna parte, tenendo per nove minuti l’ascoltatore sulla corda.

La perla è però la chiusura dell’album, la suite di 19 minuti The Crimson Memory (Akai Kioku). Senza perdere tempo, la band ci catapulta fin da subito nel vivo del lungo brano, caratterizzato dalle atmosfere horror già in parte viste nelle tracce precedenti. Tuttavia, il gruppo fa presto sfoggio della sua grande versatilità, mescolando le sonorità aggressive ad altre quasi fusion. La lunga suite è forse il brano più influenzato dal progressive classico degli anni ’70, in particolare da gruppi come Yes e King Crimson (non a caso il titolo). Nella lunga sezione strumentale posta al centro del brano, gli strumenti si scambiano vicendevolmente il ruolo da protagonista. La conclusione di questa lunga opera, che sembra quasi sfociare in una ballad, lascia stupefatto l’ascoltatore.

Un album tutto sommato soddisfacente, forse più adatto agli amanti di metal estremo che non agli amanti del progressive. Si sente la mancanza delle lunghe sezioni strumentali orchestrate tipiche di quest’ultimo genere: fanno eccezione forse Parasite Flower e la già citata suite finale. In compenso non viene mai a mancare il virtuosismo dei singoli musicisti (voce compresa).

— recensione di Pietro Spisni


Guarda anche:

Bushi no Kondate (2013)

Cineteca JFS!

Anche questa settimana l’Associazione Takamori vi fa compagnia raccontandovi un nuovo film. Quello che vi presentiamo oggi è Bushi no Kondate, del 2013, diretto da Asahara Yūzō.

Il giovane Yasunobu non vuole saperne di stare ai fornelli, perché preferisce di gran lunga la spada da samurai al coltello da cucina. Essendo l’erede dei Funaki, però, un giorno dovrà continuare la tradizione di famiglia. Il padre, disperato, si rianima quando incontra la cameriera della moglie del daimyō, Haru, perché possiede una notevole abilità culinaria. Cercando di aiutare Yasunobu, incentiverà un matrimonio fra i due. Ma andare d’accordo non sarà così facile…

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The Blood of Wolves (2018, Shiraishi Kazuya)

孤狼の血

The Blood of Wolves

(Giappone, 2018)

Regia: Shiraishi Kazuya

Cast: Yakusho Kōji, Matsuzaka Tōri, Pierre Taki

Genere: crime/poliziesco, yakuza

Durata: 126 minuti

The Blood of Wolves è un crime a tema yakuza (mafia giapponese) del 2018. Diretto da Shiraishi Kazuya, è basato sul romanzo omonimo di Yuzuki Yūko con il quale nel 2016 l’autrice si aggiudica il premio letterario per gli scrittori di gialli in Giappone.

Una giustizia corrotta?

Il film è ambientato nella regione di Hiroshima degli anni ’80, scenario spesso e volentieri ripreso da diversi film di yakuza durante la storia del cinema giapponese contemporaneo. Una ragione effettivamente c’è: gli eventi di questo film si svolgono prima ancora che il Giappone si attivasse concretamente contro il crimine organizzato e mettesse in atto le leggi per tenere sotto controllo le diverse famiglie della yakuza. Basti pensare alla famosa serie di film di Fukasaku Kinji, “Battles Without Honor and Humanity”  (Jingi naki Tatakai), usciti per la Toei negli anni ’70.

Nel caso di The Blood of Wolves ci ritroviamo a seguire le vicende dal punto di vista della “giustizia”. I protagonisti sono Ōgami Shōgo (Yakusho Kōji), detective di lunga data che lavora nella stazione di polizia di Kure, e il suo nuovo assistente Hioka Shūichi (Matsuzaka Tōri), neolaureato della prestigiosa università di Hiroshima. Ai due viene affidato il caso della scomparsa di un impiegato di una compagnia finanziaria. Mano a mano che l’investigazione continua, il nuovo arrivato Hioka viene messo davanti ad una realtà piuttosto dura: l’intero sistema delle forze dell’ordine giapponesi è corrotto. Il giovane infatti deve tenere sotto controllo e investigare i possibili legami con la yakuza, in particolare la Ōdani-gumi. Nonostante i suoi metodi poco ortodossi non siano esattamente ciò a cui l’università lo avevano preparato, Hioka segue Ōgami con molta riluttanza, sempre alla ricerca della verità per poterlo incriminare e portare un’eventuale pace nel distretto di polizia. L’uomo in questione è solito andare agli “snack” delle mama-san sotto la famiglia Ōdani e non nasconde al ragazzo le bustarelle che gli vengono consegnate quando si reca a fare visita ad uno degli uffici dei criminali. Come si scoprirà durante il fim, però, non tutto è come sembra: il confine fra “giustizia” e “crimine” si fa sempre più sottile e al climax del film, vedremo il giovane Hioka dover cambiare prospettiva, drasticamente. Ci si chiederà infatti chi effettivamente è una persona “giusta” che protegge la popolazione e chi invece agisce per il proprio tornaconto.

Il film di Kazuya Shiraishi dipinge un ritratto molto accurato della relazione ambigua fra le famiglie della yakuza e i poliziotti del secondo dopoguerra in Giappone. Come è solito nella maggior parte dei film polizieschi ci troviamo di fronte a una coppia di detective fondamentalmente uno il contrario dell’altro: da una parte Ōgami, apparentemente corrotto, violento e dalla parte della famiglia Ōdani e dall’altra Hioka, giovane e sicuro della sua idea di giustizia e su come dovrebbe svolgere il suo lavoro un detective. Quello che però The Blood of Wolves riesce a fare è rendere Hioka un personaggio molto credibile e in cui è facile riconoscersi; nonostante il ragazzo tenga molto ai suoi ideali, la realtà che si aspettava dal suo lavoro è diversa e lui è un essere umano come tutti noi: le sue emozioni non rimangono celate e prendono eventualmente il sopravvento, creando una crescita del personaggio molto interessante. Il rapporto fra i due detective che si costruirà nel corso del film è quasi cliché ma non fallisce assolutamente nel trasmettere forti emozioni.

The Blood of Wolves è un film molto violento: alcune scene risultano quasi prepotenti all’occhio di uno spettatore poco abituato alle scene presenti e ricorrenti nei film che trattano di yakuza. Nonostante queste scene molto grafiche, è comunque una pellicola carica di emozioni forti e messaggi importanti che fanno riflettere. Un film che ti tiene con il fiato sospeso: non manca di scene di azione; c’è anche del drammatico, quanto basta, e alla fine riesce a strappare qualche lacrima.

—  recensione di Noemi Tappainer


Guarda anche:

Dear Etranger (2017)

 

Cineteca JFS!

Da oggi apre la sezione “Cineteca JFS“, una raccolta di film scelti per voi direttamente da noi dell’Associazione Takamori.

È vero che la rassegna è stata sospesa, ma noi di Takamori non ci fermiamo, e continuiamo a lavorare per voi anche da casa!

Abbiamo deciso di proseguire con la presentazione dei film che avremmo dovuto portare al cinema. Niente paura: quando sarà possibile riprendere anche queste attività, noi saremo lì ad accogliervi. Così, intanto, vi diamo un assaggio delle bellissime pellicole che potremo guardare insieme quando tutto sarà passato. Ecco a voi Dear Etranger di Mishima Yukiko, 2017.

 

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