隆盛日本映画観賞会 FESTIVAL DEL CINEMA GIAPPONESE TAKAMORI 2018/2019 (3)

 

幻の光

MABOROSHI NO HIKARI

 

(Giappone, 1995)

 

Regia Koreeda Hirokazu

Cast Esumi Makiko, Naitō Takashi

Durata 110 minuti

Lingua giapponese

 

Sottotitoli a cura dell’Associazione Takamori

Sottotitoli italiani Andrea Bianco, Gioia Pettinari

Controllo sottotitoli Corrado Cucchi, Veronica Lanzara

Supervisione Francesco Vitucci

 

Casa delle Associazioni Baraccano – Via Santo Stefano 119/2 (BO)

Giovedì 8 novembre 2018 – ore 20.30

 
Yumiko vive con Tamio, vedovo e con una figlia, in un angolo costiero della penisola di Noto. La loro esistenza sembra trascorrere tranquilla, fino a quando, tornata al paese natale, ombre del passato di Yumiko e del suo primo defunto marito morto suicida non iniziano ad affiorare.

 

ENTRATA GRATUITA

GLI INSETTI PREFERISCONO LE ORTICHE (1929) – ANTINOMIE ETICO-ESTETICHE NELLA MATURITÀ DI TANIZAKI

Kanamé e Misako sono la coppia di coniugi protagonisti del romanzo. Il loro rapporto entra in crisi subito dopo il matrimonio, a seguito della perdita del desiderio erotico da parte di Kanamé. Il riconoscimento da parte di entrambi dell’incolpevolezza dell’altro di fronte ad una incompatibilità di fondo impedisce loro di risolversi con decisione al divorzio. L’indecisione, l’atteggiamento passivo e di attesa porta da un lato Kanamé a tollerare prima, e incoraggiare poi, la relazione adulterina della moglie con l’amante Aso, e dall’altro quest’ultima a rinunciare alla fuga d’amore e all’abbandono del marito. Terzo incolpevole abitatore del limbo è il figlioletto Hiroshi, di dieci anni, che pur intuendo la situazione di instabilità in cui versa la sua famiglia è sprovvisto degli strumenti necessari a comprenderla e ad affrontarla. Piuttosto che remare nella direzione che pur ritengono essere la più vantaggiosa, gli sposi si abbandonano al flusso degli eventi, affidandosi al più, con speranze infruttuose, all’azione di attori esterni: il cugino di Kanamé, Takanatsu e il padre di Misako. L’ultima scena si volge appunto a casa del secondo, il quale ha convocato figlia e genero per discutere delle circostanze coniugali rivelategli da quest’ultimo per missiva. Ancora una volta, irresolutezza e sospensione dell’azione si impongono, adottate esplicitamente come cifra stilistica e tecnica narrativa nel finale aperto, in cui la separazione ormai prossima è lasciata passibile di ulteriori procrastinazioni.

Incomunicabilità, finzione e imposizioni dalla tradizione

«Ma egli stesso aveva in animo di rivelare un bel giorno tutto a Hiroshi, come ad un adulto: aveva intenzione di fare appello alla sua ragionevolezza e di spiegargli che non v’era colpa né del padre né della madre, ma semmai delle antiche convenzioni oggi non più condivise da tutti»; questo il proposito di Kanamé. Proposito che immancabilmente fallisce a mettere in pratica. La causa del continuo rimandare è a lui ben chiara, individuata nella pressione e nelle aspettative sociali, che non permettono di professare in pubblico un’organizzazione del nucleo familiare che si basi su equilibri estranei alle convenzioni. «A Kanamé era ovviamente mancato il coraggio d’imporre alla società la sua situazione coniugale come esempio di una nuova morale, e di far notare che nella sua condotta v’erano pur dei vantaggi». Se la posizione sociale di Kanamé, la carica di direttore d’azienda lasciatagli nominalmente dal padre, consentirebbe lui una vita agiata, per quanto solitaria, così non sarebbe per Misako, maggiormente vulnerabile alle ripercussioni da parte del gruppo sociale e del padre, in primis in quanto donna, in secundis in quanto effettiva perpetrante di adulterio. Di qui il desiderio di una separazione graduale e senza traumi, che comporta, però, fingersi famiglia felice in pubblico e ridurre al minimo le occasioni sociali. Conseguenza di tali premure nel mantenere una presentabilità di facciata è l’incomunicabilità dei sentimenti all’interno della famiglia stessa: «Per Kanamé era terribile dover immaginare che quando loro tre uscivano insieme, al di là dell’apparente serenità, ciascuno fosse in realtà estraneo all’altro, chiuso nei propri veri pensieri».

Modelli di femminilità

«Per Kanamé, una donna doveva essere o una divinità o un giocattolo, e la vera causa del fallimento del suo matrimonio era stata proprio questa: non aveva trovato in Misako né l’una né l’altra». Donna divina, oggetto di idolatria, creatura trascendente di derivazione stilnovistica quanto hollywoodiana, contro donna giocattolo, “vissuta”, capace di sopravvivere con le proprie forze all’abbandono da parte del partner e di rimpiazzarlo con un altro. Donna di tipo materno, contro donna di tipo cortigiano. Questi gli estremi tassonomici che Kanamé delinea conversando di universo femminile col cugino Takanatsu. Il fatto che Misako non rientri appieno in nessuna delle due categorie è causa per Kanamé di mancanza di attrazione e allo stesso tempo d’incapacità ad abbandonarla. «”Ma lo è… fondamentalmente… è un’anima materna con una patina di cortigianeria”». Tale liminalità è avvertita da Misako stessa, in bilico tra “donna perduta”, come si definisce lei, e il modello tradizionale della ryōsai kenbo, in cui la colloca lo stesso Takanatsu «”…in realtà siete una buona moglie ed una madre saggia”».

L’anti-convenzionalità di Misako ha come contraltare la figura di O-hisa, la giovane compagna del padre. Personificazione archetipica della donna tradizionale giapponese, tanto fedele ai modelli del passato da essere paragonata più volte nell’opera alle bambole del teatro Jōruri e Bunraku, viene addestrata nelle arti tradizionali dell’ikebana e del naga-uta, e le viene imposto un abbigliamento all’antica che essa stessa definisce in un’occasione “stracci puzzolenti di muffa”.

Fascino del moderno e richiamo della tradizione

A seguito del grande terremoto del Kantō del 1923, il tokyota Tanizaki Junichirō  si trasferisce nella regione del Kansai. La critica assume questa data come discrimine nella poetica dell’autore tra una prima fase di totale fascinazione per la modernità, identificata con gli apporti dell’occidentalizzazione, e una seconda di recupero della cultura tradizionale autoctona. Ne Gli insetti preferiscono l’ortica la tensione tra le due dimensioni emerge in maniera evidente. Si considerino, da un lato, lo sguardo ironico di Kanamé sulla reazione anacronistica del suocero alle rivelazioni finali, manifestazione di una rigidità formale nel rispetto del ruolo di suocero, nel quale si atteggia a mo’ di uomo anziano nonostante sia appena sulla cinquantina; il disprezzo di Misako per i denti non curati di O-hisa, lasciati anneriti ad imitare l’antica usanza di tingerli delle dame di epoca Heian; l’irritazione che provoca in lei il pensiero di riunirsi alla famiglia nella celebrazione dello O-hina matsuri; la malcelata irritazione con cui i giovani accompagnano il vecchio e O-hisa in passatempi tradizionali quali il Bunraku di Ōsaka  e il pellegrinaggio ai ”33 luoghi di Iwaji”. Dall’altro lato, si considerino le critiche mosse dal vecchio alla figlia in merito ai gusti musicali, con riferimento alla moda del jazz, o all’usanza, affatto nuova per le donne giapponesi, di ritoccarsi il trucco in pubblico, alla maniera delle occidentali. La polarizzazione non è però assoluta: lo stesso Kanamé, che confessa la fascinazione per la cultura, la letteratura e il cinema occidentale, soprattutto per l’immaginario legato alla figura femminile, confessa parimenti un interesse inaspettato per i canoni estetici e ritmici delle rappresentazioni teatrali tradizionali. A dimostrazione di come lo stesso autore, nel rivalutare la cultura autoctona, non rinneghi in toto l’interesse per l’occidente, quanto piuttosto inviti alla ricerca di un equilibrio e di un giusto riconoscimento delle differenze tra estetica occidentale e giapponese. Interessante a tal proposito rilevare in nuce alcune delle considerazioni, come quelle sull’architettura delle abitazioni, sull’uso della luce naturale e artificiale e sulla predilezione per certi materiali, che Tanizaki svilupperà appieno nel famoso saggio Elogio dell’ombra del 1933.

—di Corrado Cucchi


Vedi anche:

隆盛日本映画観賞会 FESTIVAL DEL CINEMA GIAPPONESE TAKAMORI 2018/2019 (2)

彼らが本気で編むときは、
CLOSE KNIT

 

(Giappone, 2017)

 

Regia Ogigami Naoko

Cast Ikuta Tōma  e Kadowaki Mugi 

Durata 127 minuti

Lingua giapponese

 

Sottotitoli italiani Giulia Miggiano

Controllo Sottotitoli Giulia Berlingieri, Ludovica Fenati, Alice Foschini

 

Casa delle Associazioni Baraccano – Via Santo Stefano 119/2 (BO)

Giovedì 25 ottobre 2018 – ore 20.30

 

Tomo ha 11 anni e una madre non molto presente: quando lei sparisce, Tomo è solita recarsi dallo zio Makio. Ad attenderla però, questa volta ci sarà anche la nuova fidanzata dello zio, Rinko, una transessuale che lavora in una casa di riposo. Inizialmente un po’ confusa, la bambina si affezionerà presto a questa “nuova famiglia”.

 

ENTRATA GRATUITA

 

WARABISTAN – THE KURDISH LIMBO IN JAPAN

WARABISTAN – THE KURDISH LIMBO IN JAPAN

MOSTRA FOTOGRAFICA DI FEDERICO BORELLA

 

13-27 OTTOBRE 2018
CASA DELLE ASSOCIAZIONI DEL BARACCANO, VIA SANTO STEFANO 119/2, BOLOGNA
VERNISSAGE SABATO 13 OTTOBRE 2018 ORE 18:30
INTRODUCE FRANCESCO VITUCCI

 

Associazione Takamori è lieta di annunciare una nuova collaborazione con il  foto-giornalista italiano Federico Borella.

 

Dal 13 al 27 ottobre 2018, presso la Casa delle Associazione del Baraccano, via Santo Stefano 119/2, verranno esposte le opere del reportage Warabistan – the Kurdish limbo in Japan sulla minoranza curda nel Giappone contemporaneo. Sabato 13 ottobre 2018 alle ore 18:30 il Vernissage, con introduzione di Francesco Vitucci.

 

 

In un paese come il Giappone, con una crescente crisi demografica e carenza di forza lavoro e un previsto rapido declino della popolazione, la parola “immigrazione” desta sospetto, paura e diffidenza. Nel 2016, Tokyo ha accettato soltanto 28 di ben 10.300 richiedenti asilo. Nessuno di questi è curdo.

 

Nonostante ciò, una comunità di circa 1.300 rifugiati curdi si è stabilita a Warabi, distretto operaio dei sobborghi al nord della capitale giapponese. Un senso di orgoglio e la ricerca di una propria identità storica hanno spinto queste persone a rinominare quest’area Warabistan. Vivendo in uno stato di completa incertezza, i curdi sono sospesi tra legalità e lavoro non dichiarato, permessi temporanei, controlli svolti in maniera arbitraria e il rischio di espulsione. Come in un moderno limbo dantesco, i protagonisti sono inconsapevoli portatori di un peccato originale che non hanno commesso. Sulle loro spalle grava l’eterno fardello di non essere accettati da una società profondamente nazionalista, riluttante davanti all’integrazione seppur in disperato bisogno di mano d’opera in settori chiave per l’economia giapponese come quello dell’edilizia.

 

Nello stesso 2016 il Giappone è stato il quarto più grande finanziatore dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati preferendo donare ad organizzazioni umanitarie internazionali piuttosto che accogliere i rifugiati che vivono e lavorano tra la sua popolazione da anni.

 

 

 


Federico Borella è un fotogiornalista freelance che vive e lavora in Italia. Ha alle spalle più di dieci anni di esperienza e numerose collaborazioni con testate nazionali e  internazionali. Alcuni tra i suoi reportage sono stati pubblicati da Time Magazine, National Geographic, Cnn, Panorama, La Repubblica.

http://www.federicoborella.com/