TOKYO SOUNDTRACK: SILENZI E MELODIE DI UNA CAPITALE IN EVOLUZIONE

Ritenuto erede spirituale di Murakami Haruki, in questo libro Furukawa Hideo ci accompagna in una Tokyo surreale filtrata negli occhi di Touta e Hitsujiko, poli opposti tra musica e silenzio

 

Touta e Hitsujiko sono due fratellini orfani consacrati da una delle isole vicino a Chichi-jima, isola nell’estremo sud est del Giappone. Ritrovati dopo qualche anno e cresciuti senza un campione umano da seguire, Tokyo Soundtrack è la storia di come questi due ragazzini totalmente alieni alla società impareranno a muoversi dentro di essa: dalla lontana Ogasawara, cittadina di Chichi-jima persa nel blu a un migliaio di chilometri dalla capitale, fino alla capitale stessa.

Tra musica e silenzi

Quasi due facce della stessa medaglia, Touta e Hitsujiko rappresentano rispettivamente silenzio e musica. Al primo il concetto di melodia sarà infatti completamente alieno, mentre la sorella ne sarà quasi un’accolita. Questo porterà i due a intraprendere strade diverse, ma ritrovandosi comunque in quella megalopoli che l’autore scandaglia da cima a fondo: dai lati più quotidiani, come scuole o istituti, a quelli un po’ più controversi, come prostitute, lavoro in nero e sicari.

A tirare troppo la corda…

Romanzo di 764 pagine, potremmo dividerlo in due parti: prima e dopo l’arrivo a Tokyo.
La parte ambientata a Chichi-jima affascina il lettore a ogni pagina, lo porta lontano dal mondo caotico al quale è già di per sé abituato, tra natura, allegre pecore selvatiche e porticcioli immersi nel blu. Il linguaggio tenuto è per tutte le età, il contenuto rapisce: come Touta e Hitsujiko siano naufragati da soli, come li abbiano ritrovati, la loro vita a Osagawara, il loro crescere, gli strampalati personaggi incontrati nel mentre e persino flashback di personaggi esterni perfettamente calzanti. Tutto è un organico divenire, che sia musica o silenzio.

All’arrivo a Tokyo invece, il romanzo prende un’altra piega, tanto da aggiungere dopo un po’ un ulteriore protagonista. La narrazione perde quella sua fluidità, trovandoci molte volte dinnanzi a pagine e pagine (se non capitoli) di mere descrizioni incapaci di intrattenere quanto la vita sull’isola, perlopiù irrilevanti per la storia; come se l’autore volesse per forza raggiungere un numero di pagine a romanzo finito, penalizzando il lettore.

Di tutto un po’

In questa seconda parte Furukawa sembra purtroppo inserire qualsiasi cosa gli baleni in testa, che sia il surriscaldamento globale, l’identificazione di genere o persone che combattono danzando. Cose che se trattate singolarmente e in un altro romanzo sarebbero di certo state interessanti, ma che con il resto c’entrano ben poco (spezzando una lancia in suo favore, parlare di surriscaldamento nel 2003 era di certo d’avanguardia e lo fa con meticolosità).

Ad aggravare il tutto ci pensa infine il linguaggio scelto: se la prima parte era per chiunque, la seconda assume spesso e volentieri toni e scene da shōnen che alienano il lettore più adulto, creando talvolta imbarazzo. Una sorta di infelice retroversione da qualcosa che intrattiene a qualcosa per ragazzini che si rivela impossibile non notare.

Considerazioni finali

L’opinione in merito è contrastante proprio perché sembrano quasi essere due romanzi differenti. Tuttavia non si può non tener conto di come la qualità vada man mano a calare, creando, perché no, delusione nel lettore stregato dalle prime 300 pagine. Crediamo che se Furukawa avesse accorciato certe parti (sopratutto le iniziali del terzo protagonista) ed evitato di impuntarsi troppo su improbabili flash mob, il romanzo sarebbe risultato più scorrevole e avvincente.

Di Marco Amato

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MEI EHARA – SWAY

 

L’anno scorso a novembre la timida Mei Ehara ha rilasciato un album pop che vale la pena ritirare fuori proprio ora che è iniziata l’estate. Sway è un album fresco e leggero come una caprese, ma gli elementi che lo compongono sono tutt’altro che semplici o banali. Pescando dalla bossa nova e dal jazz fino al funky, Mei Ehara ha creato un prodotto orecchiabile e dinamico che complementa perfettamente il suo calmo timbro vocale, mai fuori dalle righe. E la varietà strumentale di questo album annoia difficilmente. Ad esempio, la traccia di apertura, 戻らない (modoranai), è una canzone estremamente groovy pervasa da un riff funky che nella parte finale regala anche uno splendido ‘assolo’ di flauto (flauto che viene utilizzato anche in altre canzoni); passando dalla lenta 狂った手 (kurutta te) col quel riff di chitarra che sembra inciampare sul tempo, attraverso la ritmata 頬杖 (hoodzue) che non sembra quasi una canzone di quest’album quanto è veloce rispetto alle altre, si arriva alla ballata 地味な色 (jimi na iro) e alla traccia che più palesemente incorpora le influenze bossa nova, 毎朝 (mai asa).

Su internet non ci sono molte sue foto recenti di, ma da quelle poche facilmente reperibili (e da questo bel video live) è strano pensare che sia nata solo nel 1991. Il suo stile di cantato così pacato e intimo, e le sue canzoni mature tradiscono la sua età.

Il cantato non è appariscente (o particolarmente strabiliante), ma trova il modo di splendere soprattutto quando la voce prende un timbro più alto, solitamente nei ritornelli: quello di 蓋なしの彼 (futa nashi no kare) ha delle splendide armonizzazioni che vengono evidenziate, nell’ultimo ritornello, quando ogni strumento si ferma lasciando i riflettori accesi solo per la voce; la canzone finale dell’album è 冴える (saeru), forse la canzone che riesce a catturare nel modo migliore le tendenze dell’album ed uno degli highlights per quanto riguarda la voce.

Sway di Mei Ehara è un ottimo album che si abbina bene ai pomeriggi svogliati, alle guide in campagna col sole che picchia forte, alle sere dopo una giornata impegnativa.

 

Jacopo Corbelli

EDIZIONE SPECIALE: ASIAN FILM FESTIVAL – A BEAUTIFUL STAR

A Beautiful Star (2017)

di Daihachi Yoshida

 

 

Ispirato dall’omonima opera dello scrittore Yukio Mishima, A Beautiful Star è un film del 2017 del genere sci-fi che narra in modo tragicomico la storia dei membri della famiglia Osugi dopo un fatto particolare.

Insolita è la situazione di questi personaggi, che da un giorno all’altro si ritrovano a credere di essere degli extraterrestri. Il padre Jūichirō Osugi (Lily Franky), lavorando come meteorologo in una trasmissione televisiva, si riconoscerà come un abitante di Marte con la missione di sensibilizzare i suoi telespettatori al cambiamento climatico che sta colpendo la Terra. La figlia Akiko (Ai Hashimoto) invece, incontrerà uno strano musicista che la convincerà del suo essere una venusiana e del suo incarico di ristabilire il concetto di bellezza che negli anni, a causa degli umani, è andato deformandosi. Insieme, padre e figlia cominceranno questa battaglia per i loro ideali insieme al giovane Kazuo, anche lui con una nuova origine extraterrestre, sotto gli sguardi perplessi e stizziti dei loro colleghi, spaesati da questo repentino cambiamento. L’unica che pare sia rimasta una persona ordinaria è la madre, che non potrà far altro che provare imbarazzo ogni volta che qualcuno la associa a suo marito ricordandone gli atteggiamenti stravaganti, come se quest’ultimo stesse diventando un povero squilibrato. Non particolarmente sveglia, è forse il personaggio in cui ci si può immedesimare maggiormente per i suoi modi un po’ naive con cui reagisce alla nuova identità dei suoi familiari.

Il regista non approfondisce in maniera completa il carattere dei personaggi, sembra lasciarli in una situazione di stallo ed è proprio questa la causa per cui a volte la storia potrebbe risultare noiosa. Ad ogni modo, A Beautiful Star è un film oggettivamente senza pretese, una storia leggera che riesce a toccare temi di rilievo senza mai cadere nel banale. Durante la visione, riesce comunque a creare un’atmosfera talmente verosimile da trarre in inganno lo spettatore e fargli credere che forse gli Osugi sono davvero alieni come vogliono far credere.

 

Recensione di Andrea Mularoni

TōKYō EXPRESS (1958) – MATSUMOTO SEICHō

Autore: Matsumoto Seichō

Titolo originale: Ten to sen

Editore: Adelphi

Collana: Fabula

Traduzione: Gala Maria Follaco

Edizione: 2018

Pagine: 169

 

Su una spiaggia di Kashii, nella baia di Hakata nel Kyūshū, vengono ritrovati i corpi di due giovani, un uomo e una donna. La polizia pensa subito a un doppio suicidio d’amore, archiviando così il caso come tale.Tuttavia questa versione non convince Torigai Jūtarō, veterano ispettore di polizia locale, che da un apparentemente trascurabile dettaglio capisce che, forse, dietro alla morte dei due potrebbe celarsi ben di più. L’intuizione dell’uomo consentirà all’investigatore Mihara Kiichi, recatosi da Tōkyō nel Kyūshū, di approfondire un caso all’apparenza senza colpevoli, sciogliendo un intreccio che poggia le sue basi sugli orari dei treni delle linee che collegano le località giapponesi. L’investigatore segue un intricato percorso lungo tutto l’arcipelago, che lo porta dall’isola di Hokkaidō fino alle province più a ovest del Kyūshū.

Matsumoto Seichō è l’autore che con i suoi romanzi dà un nuovo impulso alla letteratura poliziesca nel Giappone del dopoguerra. Questo scrittore è infatti uno dei principali esponenti della corrente letteraria dello Shakaiha (社会派), filone narrativo che vuole porre all’ attenzione del lettore i problemi sociali che il Paese e l’individuo si trovano ad affrontare, trasformando il genere poliziesco in quello che potrebbe essere quasi uno specchio della società.

Con una scrittura capace di coinvolgere dalle prime parole fino all’ ultima pagina, il romanzo accompagna il lettore attraverso le varie fasi del processo investigativo, seguendo i due protagonisti che con perseveranza continuano a scavare per scoprire una verità ben più complessa di quanto non sembri. Anello fondamentale nell’ indagine sono i nomi e gli orari dei treni che attraversano il Giappone. Tutte le linee citate dall’ autore, a partire dall’ Asakaze, il treno espresso che fino al 2005 collegava Tōkyō ad  Hakata nel Kyūshū, fino alla linea Towada, un tempo attiva nella prefettura di Aomori nell’Hokkaidō, sono realmente esistite.Anche gli orari che compaiono nella storia corrispondono ai veri orari in vigore nel 1958, trentaduesimo anno dell’era Shōwa.

Una volta iniziata la lettura non si può fare altro che immergersi insieme agli ispettori Torigai Jūtarō e Mihara Kiichi nelle indagini, ritrovandosi a vagare con la fantasia lungo l’arcipelago giapponese, a bordo di treni espressi che si muovono da una stazione all’ altra in tutto il Paese. Da Fukuoka a Tōkyō, fino ad Akita e Chitose, non resta che lasciarsi avvolgere da un paesaggio fatto di numeri, come recita il titolo del capitolo 9.

Recensione di Giulia Berlingieri

THE GUYS FROM PARADISE: IL LATO INSOLITO DEL REGISTA MIIKE TAKASHI

Kohei Hayasaka è un colletto bianco ritrovatosi accusato di possesso d’eroina e mandato a scontare la sua pena a “Paradiso”, una prigione filippina (da qui il titolo).

Pellicola del 2000 firmata Miike Takashi, The Guys from Paradise sposta il focus dal Sol Levante alle Filippine per ritrarre una realtà immersa in una giungla urbana, dove il denaro pare essere l’unico Dio e la Yakuza il suo portavoce. Nonostante venga definita una commedia agro-dolce, bisogna mettere subito le mani avanti e dire che non è un film per tutti: le tematiche trattate si rivelano talvolta pesanti (uso di droghe in endovena) o addirittura disturbanti (pedofili atti a guardare bambine).

Senza andare nei dettagli, il film si districa fra le mille insolite avventure di Kohei e della piccola comitiva conosciuta in prigione, nel tentativo di rimettere la testa fuori da quelle mura. Tentativo che, ovviamente, si rivelerà più arduo -e bizzarro- del previsto, in un mondo quasi surreale; surreale perché non mancheranno celle adibite come hotel a 5 stelle, prigionieri che sfilano banconote alle guardie per farsi un giretto in città o stralunati santoni.

Koji Kikkawa, colui che interpreta il protagonista Kohei Hayasaka

La tematica sulla quale verte la storia è la corruzione e, riprendendo lo stile del regista, gli aspetti celati sotto una mafia giapponese (qui oltreconfine) che si rivelerà… particolare, dietro al personaggio di Yoshida, un boss della Yakuza che ha trovato paradossalmente nella prigione un luogo sicuro.

Personalmente, sono abbastanza combattuto su come valutare questa pellicola. Presenta parti avvincenti contrastate ad altre abbastanza prolisse, con uno storyboarding non sempre gestito magistralmente e un attore protagonista che ritengo sarebbe risultato migliore in vesti più secondarie. Di certo non è il pinnacolo della produzione di Takashi, tant’è che si discosta da quel suo fare splatter e violento che lo ha portato alle luci della ribalta (come Audition, o i vari Dead or Alive), ma non è neanche un prodotto da disprezzare; un tentativo di addolcire quelle tematiche in qui è solito giostrarsi. Suggestiva la colonna sonora. Consigliato per i fan.

(Recensione di Marco Amato)