Confessioni – Kanae Minato || Recensione

Autrice: Kanae Minato

Traduttore: Gianluca Coci

Editore: Atmosphere Libri

Edizione: 2023

Confessioni rientra nella categoria dello iyamisu, un sottogenere del mystery che si focalizza sulla parte più oscura dell’animo umano, volto a sconvolgere e angosciare il lettore. È proprio questo il caso del romanzo di debutto di Kanae Minato, pubblicato nel 2008 e divenuto presto un bestseller in Giappone: il libro racconta della signora Moriguchi, una professoressa delle medie che perde la figlia in quello che è apparentemente un incidente verificatosi nella scuola in cui lavora. Quando scopre che è in realtà stata uccisa da due dei suoi studenti, Nao e Shūya, avvia un piano di vendetta perverso con l’obiettivo di perseguitare a vita i due carnefici: decide infatti di iniettare del sangue infetto da AIDS nel latte dei due ragazzi.

Chiunque leggendo il primo capitolo di questo romanzo condannerebbe la follia e l’efferatezza della punizione inflitta ai due ragazzini, ma più si va avanti con la lettura e più il confine tra vittima e carnefice diviene sottile, fino a sparire del tutto verso la fine della storia. È proprio qui che risiede uno degli aspetti più interessanti del libro: la colpa dell’accaduto viene passata fra i protagonisti come una patata bollente, in un gioco infantile che trasforma l’omicidio in una faida tra bambini, ma il lettore si rende ben presto conto di quanto l’innocenza non abbia alcun posto all’interno di questa vicenda. Quello che sembra essere un caso di cronaca nera isolato diviene l’ennesimo esempio di un’epidemia di violenza nella società giapponese, alimentata da un individualismo dirompente e da un profondo senso di solitudine diffuso per lo più tra i giovani; è così che una camera da letto può trasformarsi in un intero mondo, come per Nao, il quale diventa un vero e proprio hikikomori, ed è così che l’idea di uccidere una persona diventa l’unico modo per farsi notare da una madre che ci ha abbandonati, come nel caso di Shūya. L’accaduto viene inoltre raccontato dal punto di vista dei diversi personaggi coinvolti, una scelta narrativa che spinge il lettore a credere prima a una versione e poi a quella opposta, trasformandolo nell’ennesima vittima delle manipolazioni di Nao e Shūya.

In questa realtà gli adulti non rappresentano un appiglio, ma al contrario l’origine di senso di inadeguatezza e odio: la madre di Nao lo protegge e giustifica nonostante l’evidenza dei fatti, il professor Werther, che succede alla Moriguchi, vede nel suo lavoro non un mezzo attraverso cui aiutare i giovani, ma come un’occasione di auto-appagamento, mostrando interesse nei suoi studenti nella misura in cui questo possa renderlo un buon insegnante ai suoi occhi. Nonostante ciò, è impossibile non provare empatia anche nei loro confronti, soprattutto per la madre di Nao, la quale fa di tutto pur di aiutare il figlio, senza però capire che lei stessa è parte del problema.

Confessioni vuole mostrarci le conseguenze più tragiche dell’isolamento sociale, ma lo fa ricordandoci che in questa realtà le vittime non sono solo vittime e i carnefici non solo carnefici. La violenza diviene paradossalmente l’unico modo per sentirsi parte di qualcosa e venir visti, finalmente, dopo una vita passata nell’ombra, in un meccanismo grottesco di cui chiunque però può cadere vittima.

Fujii Kaze || Takamori J-Sound

Bentornati su Takamori! Oggi per la nostra rubrica dedicata alla musica giapponese vi parliamo di Fujii Kaze, ad oggi uno dei cantanti giapponesi più conosciuti ed ascoltati in patria e fuori!

Per altre curiosità sulla musica giapponese e non solo, continuate a seguirci sui social!

I casi del detective Aoyama – Ōsaka Keikichi || Recensione

Autore: Ōsaka Keikichi

Traduzione e curatela: Sara Saventi

Editore: Luni Editrice

Edizione: 2024

Per la prima volta edito in Italia, esce per la collana Arcipelago Giappone “I casi del detective Aoyama”, una raccolta di racconti gialli di Ōsaka Keikichi, scrittore della prima metà del Novecento e tassello imprescindibile della storia del poliziesco giapponese.

A legare i racconti è, come da titolo, la figura di Aoyama Kyōsuke: brillante investigatore le cui conoscenze sembrano spaziare ogni campo scientifico, capace di analizzare al microscopio la scena del crimine e risolvere il caso più intricato senza concedersi il minimo margine di errore.

I racconti proposti seguono l’originale ordine di pubblicazione e i casi affrontati dal detective si fanno gradualmente più complessi, offrendo uno spaccato della produzione più caratteristica di Ōsaka Keikichi, purtroppo poco conosciuto anche in patria. Ōsaka segue la scuola Doyle (tanto che cita direttamente la sua creazione più famosa, Sherlock Holmes), imperniando i suoi racconti sulla deduzione logica, l’indagine tramite indizi, le prove tangibili del crimine. In “Il boia dei grandi magazzini”, il primo episodio della raccolta, è Aoyama stesso ad affermare:

“Va bene ricercare il movente, è ovvio, ma vorrei oppormi alle menti semplicistiche e mediocri che si ostinano a ritenere tale prassi l’unico strumento a disposizione nell’investigazione di un crimine.”

L’infallibilità e la prontezza con cui Aoyama viene a capo di ogni apparentemente insolvibile enigma spiazza non solo il lettore, ma in primis gli altri personaggi coinvolti nelle vicende, che non possono in alcun modo reggere il confronto con il detective. È questa sicurezza e talvolta spavalderia che conferisce al personaggio un certo fascino, e l’invidia si unisce all’ammirazione. Il narratore di turno si trova sempre a seguire in silenzio Aoyama, e anche quando ha delle intuizioni corrette è comunque sempre un passo indietro rispetto all’infallibile detective, che allora gli sorride e procede a snocciolare un’analisi degli indizi raccolti decisamente più puntuale.

A fare da padrone ne “I racconti del detective Aoyama” non è solamente il nostro protagonista, ma anche la varietà di ambientazioni in cui questo si muove. Così facendo Ōsaka mostra un certo gusto realista, ritraendo le realtà del Giappone a lui contemporaneo. Come sfondo per le vicende sceglie ora un cantiere navale o una stazione ferroviaria, ora un tribunale. L’intreccio dei racconti è semplice ma mai banale, e nel caso c’è sempre un risvolto imprevedibile che solo Aoyama è in grado di decifrare e smascherare, per giungere alla sua risoluzione. È questa la freschezza nella scrittura di Ōsaka Keikichi che rimane intatta tutt’oggi, nonostante i quasi cento anni che ci separano da lui.

Recensione di Elena Angelucci

Tokyo Sonata – Kurosawa Kiyoshi || Recensione

Regia: Kurosawa Kiyoshi

Anno: 2008

Durata: 121 minuti

Genere: Drammatico

Attori principali: Kagawa Teruyuki, Koizumi Kyōko, Yakusho Kōji

Film di maggiore successo dell’ormai consolidato regista Giapponese, “Tokyo Sonata” è un’avvincente esplorazione delle difficoltà vissute all’interno di una famiglia giapponese contemporanea e del suo progressivo sgretolamento. Il film approfondisce la complessità delle relazioni familiari, delle aspettative sociali e della ricerca della realizzazione personale.

Nella pellicola, seguiamo appunto le vicende della famiglia Sasaki, una famiglia di media classe composta da Ryūhei e Megumi, rispettivamente padre e madre di due figli, Takashi e Kenji.
Il nucleo familiare è immerso in un contesto il quanto più possibile capitalista: Ryūhei, padre e patriarca, si impone all’interno delle mura domestiche in maniera autorevole, ignorando le esigenze e le emozioni della propria moglie e dei propri figli; Megumi, nonostante le buone intenzioni non riesce a scrollarsi di dosso il ruolo sottomissivo che un matrimonio fondato puramente su basi opportunistiche le ha conferito, finendo per assecondare passivamente il fare del marito; i figli Kenji e Takashi, nonostante una buona capacità nel comportarsi educatamente a casa, finiscono per riversare poi all’esterno le ribellioni causate dalle svariate iniziative stroncate dal proprio padre.

Il film si apre con il licenziamento di Ryūhei dall’ufficio per cui ha lavorato per diversi anni. Questo evento sarà la singola goccia che romperà l’equilibrio di una famiglia all’apparenza normale.
Ryūhei infatti, incapace di mostrare il proprio fallimento e allo stesso tempo di accettare un’offerta di lavoro qualitativamente inferiore, fingerà di non essere mai stato licenziato, anche grazie all’aiuto di un suo amico di liceo, anch’esso disoccupato e finendo per vivere quasi una vita parallela alle spalle della famiglia.
Anche Kenji, figlio minore, inizia a seguire segretamente lezioni di piano, nonostante un categorico divieto del padre.
Takashi, il figlio maggiore vive dissociandosi dalla propria famiglia ed è quasi sempre fuori casa, nascondendo dentro di sé una grande insoddisfazione e incertezza nei confronti della vita.
Megumi, nonostante sia cosciente che il suo ruolo in quanto madre e moglie è quello di tenere unita la famiglia, non riesce comunque a trovare la forza necessaria per superare questi avvenimenti e finisce per scappare.
Questa serie di bugie e cose non dette finiscono progressivamente per sovrapporsi l’una sull’altra, culminando nel fallimento personale dei personaggi e nella conseguente dissoluzione della famiglia.

In seguito a svariati eventi che portano ogni singolo membro a vivere un’esperienza che lo porta a vivere il picco della propria inquietudine esistenziale, decidono alla fine comunque tutti di tornare nella propria casa, con un’iconica scena che mostra il solito pasto svolto nel totale silenzio, incapaci di comunicare e finendo col nascondere ancora una volta il proprio malessere.

L’esplorazione dell’identità, dell’impatto delle difficoltà economiche e della ricerca di uno scopo individuale nel film risuona universalmente, rendendolo un commento toccante sulla condizione umana. L’abilità di Kurosawa di fondere commenti sociali e drammi familiari intimi si traduce in un film che resta nella mente dello spettatore, invitandolo a riflettere sulle complessità della vita moderna e sulla ricerca della realizzazione personale.