Abbiamo già introdotto Yonezu Kenshi come pilastro del J-pop e, più estensivamente, dello scenario coinvolgente la musica giapponese, nella recensione del suo singolo,Lemon, rilasciato nel 2018 (articolo completo nel link a piè di pagina), che lo vede già occupare una posizione importante nella produzione pop del tempo. A testimonianza di ciò, il video musicale brano di più rilievo dell’album – al quale conferisce il nome stesso – Lemon, si trova a oggi vicino agli 800 milioni di visualizzazioni, rendendolo così il video più visto nella storia della musica giapponese.
Il successo di Lemon, però, non è stato determinato da un boom virale che lo ha fatto balzare alle stelle della scena pop, bensì è stato il frutto di un processo graduale che lo ha visto scalare le classifiche ottenendo il primo posto con Bremen nel 2015, e registrare il milione di copie vendute con Bootleg nel 2017. Il successo di Bootleg fu tale che Yonezu limitò la sua attività al rilascio di singoli (tra cui, appunto, Lemon) e alla produzione di sigle per serie televisive e cartoni animati, insieme alla produzione di brani per altri artisti, come Suda Masaki (菅田将暉) nella composizione di Machigaisagashi (まちがいさがし).
La sua esponenziale ascesa lo porta alla posizione di musicista giapponese più popolare nel panorama musicale moderno, e la conferma definitiva la troviamo nella pubblicazione del suo quinto (settimo se consideriamo la produzione con il nome d’arte Hachi) e ultimo album, Stray Sheep, pubblicato nel 2020.
Come si può evincere dal titolo, l’intero album segue le linee principali che hanno caratterizzato la sua produzione – come passo andante, ricercatezze ritmiche e testi di elogio all’amore e al cambiamento – ma non è una progressione naturale, una parabola uniforme: è infatti un album in cui vi sono sia rimandi al passato, con l’inclusione di brani come Lemon, Flamingo, Uma to Shika (馬と鹿) e Umi no Yuurei(海の幽霊), ma anche un affacciarsi a un nuovo sé – il quale ha ancora tanto da comunicare con la sua arte – con distorsioni dissonanti e composizioni sperimentali a livello sia di arrangement che di contenuti.
Il brano che apre il sipario è Campanella, per il cui titolo adotta la traslitterazione カンパネルラ; non è un caso, visto che fa riferimento all’omonimo protagonista di Una notte sul treno della Via Lattea (銀河鉄道の夜), capolavoro della letteratura giapponese scritto da Miyazawa Kenji – autore affermatissimo nella letteratura del periodo Shōwa – di grande influenza folcloristica locale. Troviamo un Yonezu migliorato non solo dal punto di vista composizionale, ma anche tecnico: il suo range vocale va su e giù in finestre brevissime come una molla, gestisce magistralmente falsetti e mostra eccezionale padronanza di tecniche come l’increspatura nella nota più alta della canzone. Il brano è incredibilmente stratificato ritmicamente, con una ricchezza di strumenti e di suoni sia tratti dalla natura – scenario importante del brano con i riferimenti al deserto del Thal in Pakistan, le conifere, il mare e gli uccelli – sia “artificiali”, con sintetizzatori, interferenze elettroniche ed elementi solenni come le campane.
La canzone inoltre sposta il punto di vista da cui viene raccontata la storia di Miyazawa: il protagonista principale non è più il narratore, Giovanni, ma il colpevole, Zanelli, che ha causato la morte di Campanella gettandolo nel fiume, rivoluzionando l’esperienza dell’ascoltatore/lettore e aprendo una finestra che si staglia sul sé più intimo. Yonezu stesso infatti ci dice:
È una canzone incentrata su Campanella, ma il cantante non è Giovanni, semmai Zanelli. Zanelli è un prepotente e la causa diretta della morte di Campanella. Una parte di me prova molta empatia per Zanelli. Quando gli esseri umani commettono errori, direttamente o indirettamente, possono causare la morte di qualcuno. Penso che ogni tipo di scelta sia collegata alla morte altrui. Per riferirmi all’attualità, è possibile che io sia portatore di una malattia senza saperlo e che involontariamente infetti qualcuno, facendolo ammalare gravemente e morire. Ogni tipo di scelta può portare alla potenziale morte di qualcuno. Credo che Zanelli sia uno che ha assistito di persona a tutto questo. È stato direttamente coinvolto nella morte di Campanella e vive trascinandosi dietro questa ferita. Credo che questo si colleghi alla mia natura autopunitiva.
Un altro pezzo che ha riscontrato enorme successo è Flamingo, uscito come singolo nel 2018 e riportato nell’album. È un pezzo bizzarro ed eccentrico, caratterizzato da una trama annebbiata e linguaggio oscuro, con l’inserzione di suoni riecheggianti onomatopee; la linea vocale ondula dall’alto verso il basso come una funzione trigonometrica, e nella composizione vi è una forte componente funk.
Troviamo anche la self-cover di un pezzo scritto per l’emittente televisiva NHK e successivamente diventato tema delle Olimpiadi di Tokyo 2020, Paprika, reinterpretata e ricomposta secondo la componente folk già riscontrata in Flamingo; Kanden (感電), colonna sonora del dorama Netflix MIU404, in cui la pluralità di strumenti, il ritmo agile e un orecchiabile ritornello la rendono uno dei pezzi di stampo pop più interessanti; Yasashii hito (優しい人), la quale interrompe come un fulmine a ciel sereno – con il suo stampo intimistico nella forma di una ballata povera di strumenti ma ricca di spiritualità – l’andamento dell’album.
Sullo stampo della ballata intimistica, infine, troviamo Canary (カナリヤ), pezzo di chiusura che sottolinea l’importanza del cambiamento nella nostra lunga vita in quanto esseri umani ed evidenziando come, anche in amore, è giusto abbandonarci al fiume inarrestabile della naturale evoluzione degli eventi, prendendo consapevolezza di come anche i sentimenti possano cambiare; il cambiamento porta dolore, ma è giusto accettarlo come parte di noi.
Stray Sheep è quindi il ritratto di una profonda sensibilità e il frutto di un’evoluzione sia graduale, ma anche inaspettata dell’anima in quanto essere umano e musicista di Yonezu; l’ascolto lascia quindi un senso di completezza per tutte le aree emotive toccate, lasciando anche la curiosità di assistere al coronamento dell’evoluzione inaugurata dalle componenti dissonanti e sperimentali.
Eccoci all’appuntamento n°2 su Kobayashi Masaki e la sua filmografia! Questa è Akushon, la rubrica dei registi di JFS. Seguiteci!
La condizione umana è una trilogia cinematografica del 1959. Quest’opera consiste in una forte autocritica sul recente passato bellico giapponese. Nel 1943 Kaji e Michiko, giovani sposi giapponesi, vengono inviati in Manciuria. Kaji, ingegnere, è incaricato di dirigere una miniera composta da prigionieri cinesi, militarmente sorvegliata e circondata da filo spinato elettrificato. Ritenuto responsabile di alcuni tragici eventi all’interno della prigione, Kaji viene destituito ed arruolato. Nel frattempo sua moglie Michiko svolge diversi lavori per sopravvivere fino a divenire infermiera presso un ospedale con personale medico cinese. Kaji, nonostante i suoi ideali pacifisti, si distingue divenendo caporale, tentando anche qui di combattere la disumanizzante dottrina militarista corrente. Si arriverà fino a dopo le due bombe atomiche, con Kaji che cerca di ritornare da sua moglie dopo aver provato più volte a seguire i suoi ideali tra i vari fallimenti. Oltre agli orrori della guerra e le amarezze delle vita, il finale tragico lascerà riflettere davvero sulla condizione umana. Harakiri (切腹 Seppuku) è un film del 1962 vincitore del Premio speciale della giuria al Festival di Cannes 1963. Agli inizi del XVII secolo, la pacificazione violenta del Giappone ad opera dello shogunato, ha provocato la caduta di molti signori della provincia e la conseguente creazione di un esercito di rōnin (samurai caduti in disgrazia) privi di impiego e costretti a muoversi verso le città. Nel 1630, uno di questi, Hanshiro Tsugumo, si presenta alle porte della casa Iyi, nei pressi della città di Edo. Al cospetto dell’intendente della nobile famiglia chiede che, data la situazione di disgrazia e miseria in cui è caduto dopo la caduta del signore di Geishu, gli sia concesso, nella dimora, un luogo in cui compiere onorevolmente seppuku. Tramite vari flashback racconterà le sue avventure e le peripezie che lo hanno portato fino alle porte della casa del signore e con scene d’azione e drammatiche si arriverà al finale dove l’unica cosa a salvarsi è l’onore. 怪談 Kaidan, lett. “Storie di fantasmi è un film del 1964, ha vinto il Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes 1965. Ha ottenuto una nomination ai Premi Oscar 1966 come Oscar al miglior film straniero. Il film si divide in 4 episodi: Kurokami (Capelli neri) dove nella Kyoto del tardo medioevo, un giovane samurai, trovatosi in povertà, accetta di prendere servizio presso un signore di una lontana provincia e abbandona l’addolorata moglie. Poi Yuki-onna (La donna della neve), due boscaioli, l’anziano Mosaku e il giovane Minokichi, vengono colti da una intensa tempesta di neve che gli impedisce il ritorno al villaggio. Trovato riparo in una capanna, durante la notte Minokichi si sveglia all’improvviso e si trova davanti la mitologica donna della neve, tutta vestita di bianco che cambierà per sempre la sua vita. Dopo vi è Miminashi Hoichi no hanashi (La storia di Hoichi Senzaorecchie), Hoichi, un giovane monaco buddista cieco, ama dilettarsi cantando, accompagnato dal biwa, della guerra scoppiata tra i Taira e i Minamoto per l’egemonia del Giappone del XII secolo. I suoi canti sono ascoltati dai fantasmi del clan decaduto che decidono di farsi cantare ogni notte queste vicende. Infine, Chawan no naka (In una tazza di tè), nei primi del Novecento, uno scrittore si sta cimentando nella lettura di una storia; il racconto narra del guerriero Kannai che vede riflesso, nella sua tazza di tè, uno strano personaggio, che si presenta la sera stessa a casa di Kannai. L’ultimo samurai è un film del 1967. Nel 1725 il daimyo Matsudaira Masakata, leader del clan Aizu, dietro suggerimento di un consigliere ordina a Sosabara Yogoro, figlio maggiore del proprio samurai Sosabara Isaburo, di sposare la propria concubina Ichi (dalla quale aveva precedentemente avuto un figlio). Nonostante il matrimonio sia combinato, Yogoro e Ichi si innamorano col tempo. Ma con la morte dell’erede al trono, il figlio avuto dal daimyo diventa il nuovo erede della famiglia Matsudaira, e Masakata ordina a Yogoro di restituirgli Ichi. Isaburo si ribella a questa decisione e rifiuta, schierandosi con il primogenito e la nuora; Masakata ordina a Isaburo e Yogoro di commettere seppuku come punizione della loro “insolenza” nel ribellarsi al suo ordine. Da qui inizia la loro drammatica e dolorosa avventura per sfuggire agli ordini del signore, il finale però non lascia altro spazio che alla tragedia.
E con questo siamo giunti alla fine del nostro approfondimento su Kobayashi Masaki. Vi aspettiamo tra due settimane con un nuovo regista con Akushon!
Autore: Stefania Viti Editore: Sonzogno Incopertina: illustrazione di Vincenzo Filosa Edizione: 2023 Pagine: 252
StefaniaViti giornalista professionista con esperienza internazionale, laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Lingua e Letteratura Giapponese. Vissuta a Tokyo per 10 anni, adesso vive e lavora a Milano e scrive di svariati temi tutti relativi al Giappone contemporaneo per testate nazionali e internazionali. Con “Matcha al veleno” mostra la cultura giapponese, in particolare la famosissima “cerimonia del tè” attraverso un incidente durante proprio una di esse, la koicha temae, cerimonia in cui i partecipanti bevono da un’unica tazza di tè. Ci troviamo nella scuola del tè Tsubaki, nel quartiere Brera con la partecipazione di figure di spicco della comunità nipponica milanese nonché della Milano Bene. Tra le figure di spicco, Ludovica Cattaneo, mecenate rinomata dei salotti cittadini e moglie di un importante finanziere, dopo aver bevuto si accascia per terra a causa di quello che sembrerebbe un malore improvviso. La protagonista, la giornalista di moda e amante del Giappone, dove ha vissuto, Nora Valli, non si fa convincere dalla situazione e pensa ci sia qualcos’altro, che non si tratti di un malore incidentale, ma di un delitto. Così iniziano le sue investigazioni a riguardo per scoprire la possibile causa e il possibile colpevole, affiancata e spronata dal suo mentore Gigi, caporedattore della cronaca. Seguiamo, dunque, le vicende della protagonista con tanto di intrighi, amori e passioni, con l’incessante ombra della sua direttrice, Agata, che cerca di rincorrerla. Non mancheranno degli spaccati sulle vite tumultuose dei vari personaggi che aiuteranno pian piano a ricostruire il delitto, ovviamente filtrati dai pensieri, esperienze e intuizioni di Nora. Co-protagonista della storia è la cultura giapponese, lo si evince già dal titolo, dalle prime righe e dai continui rimandi, con curiosità e approfondimenti sia per un lettore edotto in materia, sia per un lettore alle prime armi con il Giappone e la sua cultura, che anche senza volerlo rimarrà affascinato. Altro segno evidente della conoscenza nipponica della scrittrice che pervade l’intero libro è la nomenclatura dei capitoli, tutti con parole giapponesi, emblematiche, ma sempre azzeccate, ma anche i dialoghi in giapponese sparsi per l’opera scritti utilizzando i sistemi di scrittura giapponesi, ma anche in rōmaji, la trascrizione latina di quest’ultima. per poi essere subito riportarti in italiano, senza intimorire nessun lettore, a prescindere dalla propria conoscenza del giapponese. Da non sottovalutare, inoltre, i consigli o più propriamente le analisi di moda della protagonista, con un spazio peculiare per lo smalto, quasi un’ossessione di quest’ultima. Intrigante culturalmente, pieno zeppo di nozioni sull’oriente, “Matcha al veleno” è una lettura gradevole, un giallo avvincente, non solo, ma anche altro, da scoprire e da leggere.
AssociazioneTakamori è lieta di annunciarvi il secondo film della rassegna AFS primaverile, in collaborazione con Asia Institute, Martedì 21 febbraio al Cinema Rialto.
“Under the open sky” narra la storia di Mikami, un ex membro della Yakuza, che esce dal carcere dopo aver scontato 13 anni di prigione. Nonostante i suoi tentativi di reintegrarsi nella società, resta difficile per Mikami staccarsi dai propri valori e trovare un buon lavoro.
Feel the Wind (in originale Kaze ga tsuyoku fuiteiru) è un film del 2009 basato sull’omonimo libro dell’autrice Miura Shion del 2006. Il film gira attorno alla Hakone Ekiden, che generalmente si tiene tra il 2 e il 3 di gennaio, durante il quale i concorrenti devono correre da Tokyo fino a Hakone.
Il film tratta di Kurahara Kakeru (Hayashi Kento), un prodigio della corsa, che viene invitato da Kiyose Haiji (Koide Keisuke) a vivere nello stesso dormitorio chiamato Aotake dopo essere scappati correndo da un ristorante senza pagare. Durante una cena per festeggiare il nuovo arrivato, si scopre che in realtà l’Aotake è la sede del club di corsa, e che Kiyose li ha scelti per cercare di partecipare all’Hakone Ekiden, una staffetta di livello universitario, e Kurahara era il decimo inquilino che mancava per poter partecipare. Nonostante lo scetticismo dei compagni, e soprattutto di Kurahara che vede l’impresa come impossibile, i dieci ragazzi cominciano ad allenarsi per poter finalmente prender parte alla gara e realizzare il sogno di Kiyose.
La pellicola si focalizza principalmente sulla corsa, mostrandone la capacità liberatoria, ma anche l’immensa solitudine che ne deriva. Kiyose tenta di dimostrare a Kurahara che ciò che importa davvero nella corsa non è la velocità, ma la forza, e che invece di scappare dai propri problemi si può usare questo sport per correre verso un obiettivo. Inoltre, il film cerca esplora come Kurahara era da solo anche nella vita oltre che nella corsa, e come seguire Kiyose l’abbia aiutato a connettere anche con gli altri membri del gruppo, e a capire che ognuno di loro ha trovato un modo di gestire i problemi attraverso la corsa. Questa connessione tra i personaggi è brillantemente dimostrata attraverso l’uso della staffetta, in quanto il passaggio del testimone collega tutti loro, dall’inizio alla fine della gara.
Nonostante il largo cast di personaggi e il focus particolare su Kurahara e Kiyose, ognuno dei dieci protagonisti riceve un momento per brillare e avere l’attenzione su di sé, dando il film un senso di completezza e realizzazione dei personaggi.
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