Il Sospettato X || Recensione

Autore: Higashino Keigo

Traduttore: Gianluca Coci

Editore: Giunti

Edizione: 2019

Pubblicato nel 2005 e accolto con grande successo in patria e all’estero, Il Sospettato X (容容疑者Xの献身, Yōgisha X no Kenshin) è probabilmente uno dei thriller più acclamati di Higashino Keigo, maestro del giallo logico contemporaneo giapponese. A differenza del classico whodunnit, il romanzo si concentra sul come e sul perché di un delitto, costruendo una tensione narrativa fondata non sull’identità dell’assassino – rivelata fin dalle prime pagine – bensì sulla sofisticata architettura logica del crimine stesso.

La vicenda ruota attorno a Ishigami, un brillante e solitario insegnante di matematica, e Yasuko, una donna dal passato doloroso che cerca di rifarsi una vita lavorando in una tavola calda. Quando l’ex marito violento di Yasuko viene trovato morto, Ishigami si offre di proteggerla in modo inaspettato e radicale. L’indagine viene affidata a Yukawa, fisico e investigatore dilettante, nonché vecchio compagno di studi dello stesso Ishigami. Il caso si presenta subito come risolto, ma ciò che emerge lentamente è un ingegnoso gioco di maschere, inganni e deduzioni che mette lentamente in crisi ogni assioma.

Ciò che rende Il sospettato X un romanzo tanto straordinario è l’equilibrio con cui Higashino intreccia il piano logico e quello emotivo. Il personaggio di Ishigami incarna il conflitto tra razionalità pura e affetto umano, tra deduzione e sacrificio. La natura del sentimento che prova per Yasuko, mai dichiarato apertamente nel libro, lo spinge a compiere un gesto estremo, costruendo una realtà alternativa in cui ogni dettaglio è pensato con la precisione di una dimostrazione matematica.

Il ritmo della narrazione è calibrato, quasi chirurgico. La tensione cresce in modo sottile ma inesorabile, e ogni rivelazione è dosata con estrema cura. Higashino sceglie di non fare uso di colpi di scena eclatanti, ma affida all’eleganza della logica e alla profondità dei personaggi il compito di tenere il lettore incollato alla pagina. Sul piano stilistico, l’autore opta per una prosa limpida, asciutta, che mai cede all’enfasi né alla retorica, accompagnando con lucidità l’introspezione psicologica dei protagonisti.

Il romanzo parla di giustizia e amore nel modo forse più disarmante possibile, rivelando gradualmente come entrambe le cose siano in realtà fondamentalmente (e dolorosamente) ambigue. In questo senso, Higashino si avvicina più alla tradizione dello Shakai Ha (社会派, la scuola sociale iniziata da Matsumoto Seichō, di cui si è già discusso ampiamente in precedenza) che al romanzo di puro intrattenimento (大衆小説, taishū shōsetsu): i suoi personaggi si muovono in una società che non è semplice sfondo, ma tessuto vivo di pressioni, aspettative, solitudini. La logica, nel romanzo, non è solo strumento di verità: è anche scudo, trappola, linguaggio dell’invisibile in un mondo allocentrico che è preda di un irrefrenabile individualismo.

Per questi motivi, si potrebbe accomunare Il sospettato X a un dramma umano travestito da enigma; più che a un thriller, a un romanzo cerebrale ma profondamente toccante, dove l’ingegno diventa l’arma più venefica – e il cuore, terra di nessuno.

Recensione di Francesco Meco

Un posto Tranquillo || Recensione

Autore: Matsumoto Seichō

Traduzione: Gala Maria Follaco

Editore: Adelphi

Edizione: 2020

Matsumoto Seichō, figura chiave del giallo giapponese, ha fatto del noir uno strumento per esplorare l’animo umano sotto la pressione della società moderna. Il titolo del suo romanzo “Un posto tranquillo” è in realtà un inganno: sotto l’apparente calma si agita un abisso.

La storia prende avvio dalla morte improvvisa di Eiko, la moglie del protagonista, Tsuneo Asai, il quale è un funzionario ministeriale metodico e ligio al dovere. Per quanto tragico e doloroso, si tratta di un evento naturale e che non dovrebbe suscitare dubbi… eppure qualcosa stona. Alcuni particolari non tornano: un dettaglio geografico, un luogo inadatto, e la macchina dell’ossessione si mette in moto. Spinto da dubbi crescenti, Asai inizia un’indagine personale che lo conduce in un mondo fatto di sospetti, reticenze e bugie. Il senso di inquietudine cresce pagina dopo pagina.

Il linguaggio di Matsumoto Seichō è oggettivo, spesso quasi burocratico, che riflette perfettamente la mente del protagonista: un uomo preciso, formale, intrappolato nel proprio ruolo sociale. E proprio questo stile freddo, in cui non c’è spazio per il superfluo, amplifica l’effetto drammatico: l’autore non dice che qualcosa è tragico, bensì lo fa percepire al lettore attraverso i gesti, le omissioni, i silenzi. Il romanzo non esplode: scava, insinua, rode.

L’atmosfera del romanzo è claustrofobica. Il mondo esterno è ordinato, ripetitivo, un paesaggio grigio e monotono dove le emozioni vengono soffocate, e proprio per questo diventano pericolose, tanto da sentirle pulsare sotto la superficie. È un noir senza detective, dove la vera indagine è interna.

Matsumoto Seichō affronta con lucidità alcuni dei temi a lui più cari: la doppia faccia della rispettabilità borghese, l’influenza dell’allocentrismo giapponese sul comportamento del singolo individuo, l’ossessione per l’apparenza che ne deriva. L’autore, senza giudizi morali, osserva il viaggio oscuro avviatosi nella mente di un uomo comune spinto al limite, che si confronta con il proprio desiderio di verità e con quello, più torbido, di controllo, mostrando come l’ossessione possa sfociare nella distruzione totale di sé e degli altri.

Matsumoto Seichō ha rivoluzionato il giallo giapponese, trasformandolo in uno strumento critico verso le ipocrisie della società. “Un posto tranquillo” ne è un esempio cristallino: un romanzo breve ma ricco di spunti, dove l’enigma iniziale si trasforma in un’analisi impietosa della psiche. Con uno stile sobrio e realistico, l’autore costruisce un romanzo breve e spietato, in cui la tensione è costante e mai spettacolare. “Un posto tranquillo” è un perfetto esempio del “noir morale” di Matsumoto Seichō, dove il crimine non è tanto un enigma da risolvere, quanto una lente per osservare le crepe della società, restituendo un’immagine cruda e spesso inquietante del Giappone del dopoguerra.

Recensione di Giulia Erriquez

Finché non aprirai quel libro || Recensione

 

Autrice: Aoyama Michiko
Traduzione: Daniela Guarino
Editore: Garzanti
Edizione: 2022

Nato nel 2020 dalla penna di Aoyama Michiko, il romanzo Finché non aprirai quel libro (titolo originale お探し物は図書室まで, Osagashimono wa toshoshitsu made) intreccia armoniosamente le vite di cinque persone che, a prima vista, nulla hanno a che fare l’una con l’altra. Ogni capitolo narra la vita di una di loro, cominciando da Tomoka, giovane donna che ambisce a un lavoro migliore. A seguire, Ryō, che sogna di aprire un giorno un negozio di antiquariato; Natsumi, madre e lavoratrice continuamente impegnata in un tiro alla fune tra i due ruoli; Hiroya, ancora in cerca di una strada da seguire. Infine Masao, un pensionato che si confronta col senso di vuoto lasciato dal termine della carriera.

Età diverse, situazioni e necessità diverse, sogni tanto differenti quanto all’apparenza intangibili. Tramite la voce in prima persona dei personaggi l’autrice riesce a costruire per ogni capitolo dei mondi completi, indipendenti dagli altri e al tempo stesso strettamente legati tra loro da una figura eccentrica e misteriosa, quella della signora Komachi, la proprietaria di un’umile biblioteca nascosta in un quartiere di Tokyo. Infatti, ognuno di loro si ritrova per qualche motivo ad entrare nell’edificio, in cerca di… qualcosa.

Superando un separé sovrastato da una targa che recita “bibliografia” ad aspettarli c’è la signora Komachi Sayuri, che sorprende per la grossa stazza umoristicamente in antitesi con un portamento elegante e una voce soave in grado di ammaliare il cuore. Se, a primo impatto, tutti rimangono colpiti dalla figura della donna, quello che li lascia davvero destabilizzati è una semplice frase, una domanda, che li interroga su una questione altrettanto banale all’interno di un contesto come quello di una biblioteca. Con tono gentile ma imponente, la signora Komachi scruta ognuno di loro e chiede: “Che cosa cerca?”.

Così, ognuno se ne va per la propria strada portando con sé i libri richiesti in prestito e, non senza un velo di titubanza, un libro completamente sconnesso da questi ultimi, infilato tra la pila dalla bibliotecaria senza un apparente motivo. Un errore, o forse la spinta che serviva davvero per pensare, ricordare e scoprire finalmente ciò che il cuore davvero desidera. Una spinta mirata non all’offrire risposte, bensì ad aprire nuove possibili strade da percorrere al di là del vicolo cieco in cui la vita li aveva intrappolati.

Ogni capitolo, nonostante sia incentrato su essenziali storie di quotidianità, riesce deliziosamente a districare la complessità dell’animo umano, ingabbiato in una routine che scivola inesorabilmente verso sogni sepolti e accantonati in favore di una moderna lotta per la sopravvivenza. Finché non aprirai quel libro è un inno alla vita, alla riscoperta di sé, al coraggio di rimettersi in gioco…

E, forse, quello che anche voi state davvero cercando.

Recensione di Rachele Cesarini 

“Rewrite” di Matsui Daigo || Takamori x FEFF 27

Presentato in anteprima mondiale al Far East Film Festival, Rewrite segna una nuova tappa nella carriera di Matsui Daigo, mostrando una maturità artistica che arricchisce ulteriormente il suo percorso registico.

Ispirato a The Girl Who Leapt Through Time e ambientato nella suggestiva città costiera di Onomichi, il film si configura come un sentito tributo al maestro Ōbayashi Nobuhiko, come dichiarato dallo stesso Matsui alla premiere mondiale.
In apparenza, Rewrite si presenta come un classico dramma romantico con elementi di viaggio nel tempo, ma ben presto rivela un impianto narrativo molto più sofisticato e complesso. Ciò che sembrava il preludio a una storia d’amore adolescenziale, si trasforma in una trama articolata e imprevedibile, simile a una partita di scacchi che, inaspettatamente, acquista una dimensione ulteriore. Da quel momento, il film si apre a riflessioni complesse su tempo, scelte e responsabilità.
La trama ruota attorno a Miyuki (interpretata da Ikeda Elaiza), una studentessa delle scuole superiori che incontra Yasuhiko (Adachi Kei), un misterioso compagno di classe proveniente da un futuro distante 300 anni, giunto nel passato per conoscere l’autrice di un romanzo che lo aveva profondamente colpito.
Miyuki custodisce il segreto di Yasuhiko e, durante un’estate ricca di avvenimenti, i due si innamorano. Un giorno, assunta una pillola datale dal ragazzo, Miyuki incontra una se’ di dieci anni più grande la quale le rivela che il libro tanto amato da Yasuhiko è in realtà opera sua, e tutto ciò che deve fare è scriverlo. Il tempo passa e per il giovane giunge l’ora di tornare nel futuro, ma prima di salutarlo lei gli promette di trasformare la loro storia in un romanzo e completare così il ciclo temporale.
Dieci anni dopo, ormai scrittrice affermata, Miyuki torna a Onomichi per incontrare la se stessa del passato e ripetere l’incontro di dieci anni prima. Tuttavia, la Miyuki liceale non si presenta “all’appuntamento”.
Il legame intenso tra due amanti separati da epoche diverse — e forse destinati a non rincontrarsi mai — perde parte del suo pathos quando, durante un incontro tra ex compagni di scuola, Miyuki scopre di non essere l’unica a conoscere il segreto di Yasuhiko, infatti questo avrebbe replicato la stessa storia estiva avuta con la ragazza. Sebbene la narrazione continui a ruotare attorno a Miyuki, è l’irruzione dei vecchi amici nella trama a cambiare tono e direzione al film. In mano meno esperte, questo snodo narrativo avrebbe potuto portare alla confusione, ma Ueda gestisce abilmente la complessità delle sottotrame, mantenendo fluidità e coerenza. I flashback che raccontano i maldestri tentativi di Yasuhiko di rimettere ordine nei suoi salti temporali regalano momenti di leggerezza e ironia.
Il viaggio nel tempo, quindi, non rappresenta un semplice trucco narrativo, ma diventa metafora delle scelte compiute e delle aspettative che pesano su di noi. È un modo per far dialogare il presente con le sue molteplici possibilità future, più che con il passato. Al centro del film non c’è tanto il desiderio di modificare ciò che è stato, quanto il bisogno urgente di vivere pienamente ciò che è, con tutte le sue imperfezioni.
La peculiarità del film sta nel modo in cui Matsui evita tanto l’eccesso drammatico quanto la retorica sentimentale, optando per un linguaggio sobrio e scambi misurati. Rewrite è un film discreto ma incisivo, che riesce a parlare al cuore senza alzare la voce. Con lucidità e sensibilità, Matsui firma un’opera che non cerca effetti speciali, ma guarda all’interiorità e alla crescita personale. In un’epoca che premia chi arriva sempre primo, Rewrite ci ricorda che il tempo è anche comprensione, lentezza e accettazione di sé.

108 Rintocchi || Recensione

Autrice: Yoshimura Keiko

Traduttrice: Laura Imai Messina

Editore: Piemme

Edizione: 2023

108 rintocchi (titolo originale 108の鐘, Hyaku-hachi no kane) è il romanzo d’esordio di una giovane scrittrice giapponese nata a Tōkyō nel 1999 e conosciuta sotto lo pseudonimo di Yoshimura Keiko. Il romanzo catapulta il lettore su una piccolissima gocciolina di terra dell’arcipelago delle isole Izu, nota per la produzione di olio di camelia. Su questo nido silenzioso tra i flutti del mare, Sohara Mamoru si appresta ogni giorno a riparare tetti, finestre, orologi, rubinetti e, insieme ad essi, il cuore delle persone.

È il tuttofare dell’isola: tutti lo cercano se c’è un lavoretto da fare e, soprattutto alle soglie del Capodanno – momento in cui è ambientato il romanzo e anche giorno del compleanno di Sohara – lavoro e pulizie per accogliere l’anno nuovo al meglio non mancano affatto. L’intera comunità dell’isola collabora e si unisce per portare avanti di generazione in generazione, in questo speciale periodo dell’anno, secoli di tradizioni. Si unisce per tramandare lo spirito di un luogo magico scandito dal tempo del mare.

Un luogo che può essere amato davvero solo quando per una volta lo si abbandona e ci si rende conto che solo lì si può tornare, come era accaduto al Sohara ventenne, che nella Tōkyō assordante che non conosce silenzio non trovava più sé stesso. L’isola e le persone che la abitano sono per lui il suo mondo, rappresentano tutto ciò di cui ha bisogno per essere felice: rimettere insieme gli oggetti, dargli una nuova vita è il suo modo per dare una carezza a ciascun abitante, per far capire che tutto si può sistemare.

È anche un modo per rallentare l’invecchiamento dell’isola, rendendola sempre nuova, ma allo stesso tempo mantenendola fedele a sé stessa. Ciò che colpisce è anche l’agire silenzioso di Sohara, quasi inspiegabile e invisibile, ma che tutti inevitabilmente sanno riconoscere. Realizza piccoli miracoli di sua spontanea volontà: è un grande osservatore che si appunta tutto su un quadernino e, quando può, sistema magicamente anche ciò che non gli è stato esplicitamente chiesto di sistemare, perché sente nel profondo la storia, i legami, le persone, i ricordi che si celano dietro ogni piccola cosa che rende come nuova.

Sohara, in un’epoca in cui ciascuno pensa solamente al proprio orticello, in cui paradossalmente connettiamo i nostri dispositivi ma scolleghiamo le nostre anime, ci ricorda come il potere di una minuscola azione può avere un effetto enorme sulle nostre corde più profonde. Ci riporta all’umanità vera, in cui è bello aiutare ed essere aiutati: anche Sohara, proprio quando teme il peggio per il futuro di sua figlia Tōka, viene ricambiato da tutti gli abitanti per ciò che ha sempre fatto per loro, per aver messo tutto il suo impegno e tutta la sua volontà in ogni riparazione.

La scrittura di Yoshimura è semplice, ma permette di concentrarsi sul significato dei gesti quotidiani, portandoci a riflettere su come le piccole attenzioni reciproche possono aiutarci a costruire legami profondi e duraturi. È un romanzo che pone speranza sulle relazioni umane, sulla capacità di guardare e guardarsi dentro.

Recensione di Valeria Varrenti

L’attesa – Matsumoto Seichō || Recensione

Autore: Matsumoto Seichō
Traduttrice: Gala Maria Follaco
Editore: Adelphi
Edizione: 2024

Pubblicato negli anni Sessanta, L’attesa (強気あり, Tsuyokiari) rappresenta forse uno dei romanzi più densi di Matsumoto Seichō.

Maestro dello Shakai Ha (社会派, “scuola sociale“), l’autore è in grado di costruire in appena trecento pagine un abile commentario della metropoli del suo tempo attraverso la vita di Isako, donna scaltra e ambiziosa sposata ad un uomo di trent’anni più anziano di lei, Nobuhiro, alla cui eredità questa guarda senza scrupolo alcuno, augurandosi una subitanea morte del consorte.

La trama si infittisce non appena Isako scopre che la fidanzata di Ishii Kanji — uno dei suoi tanti amanti più giovani — è morta in circostanze a dir poco sospette. Tremendamente scossa dalla notizia non tanto per il fatto macabro quanto per la minaccia che la sua presenza nell’appartamento di Kanji la sera dell’accaduto potrebbe risultare compromettente per la sua reputazione (e quindi per il suo piano di ereditare le fortune di Nobuhiro), Isako cercherà in ogni modo di arginare le sue possibilità di essere scoperta nel suo meschino intento attraverso inganni, ricorsi a favori, menzogne e manipolazioni.

Il freddo cinismo della protagonista è evidenziato ad ogni pagina — le sequenze diegetiche e dialogiche sono quindi spesso interrotte da un turbinare di pensieri irrequieti: “cosa succederà se agisco in questo modo?”, “e se le vere intenzioni di questa persona fossero ben altre?”.

Attraverso la sua sapiente prosa, Matsumoto rende tangibilmente gravosa l’*attesa* di Isako, creando tensione ad ogni svolta della trama, alimentando una sostenuta patina di ansietà e incertezza che permette al lettore quasi di entrare nella testa della donna: Isako non solo attende che il marito muoia, ma è sospesa nell’attesa incerta e angosciosa degli avvenimenti futuri, che — nonostante l’acume delle sue previsioni riguardo le mosse altrui — non può in alcun modo conoscere.

Forse uno dei romanzi noir più densi di Matsumoto, Tsuyokiari mette a nudo uno dei lati più oscuri della intrinseca relazionalità sottostante la società giapponese, rivelando la rete sociale fragile, diffidente, crudamente opportunista del Giappone del proprio tempo.

Recensione di Francesco Meco