Autore: Natsume Sōseki 

Titolo originale: Nihyakutōka

Editore: Lindau

Collana: Senza frontiere

Traduzione: Andrea Maurizi

Edizione: 2019

Pagine: 104

Il 210° giorno, tratto da un episodio della vita di Natsume Sōseki, viene pubblicato per la prima volta nel 1906 sulla rivista «Chūōkōron», ma è edito in Italia solamente quest’anno. Si tratta di un racconto breve, anche per questo a lungo sottovalutato dalla critica, e racconta di due giovani, Kei e Roku, che soggiornano nella città di Aso (nel Kyūshū) con l’intenzione di scalare l’omonimo vulcano per  affermare la propria virilità.

Il titolo fa riferimento ad un giorno del calendario lunisolare (abolito dal governo Meiji nel 1873), il nihyakutōka  (lett. “il 210° giorno”). In questo particolare calendario erano segnati anche due periodi, sul finire dell’estate, in cui potevano avvenire violente perturbazioni atmosferiche :

  • il nihyakutōka, che coincideva con la fine di agosto e l’inizio di settembre cioè, duecentodieci giorni dall’inizio della primavera;
  • il nowaki (lett. “erba divisa [dal vento]”),che indicava i tifoni che si verificavano tra duecentoventesimo e duecentotrentesimo giorno dall’inizio della primavera.

Il vento e la pioggia del 210° giorno, insieme alle nubi di cenere vulcanica, agitavano a tal punto la vegetazione che era impossibile distinguere qualunque cosa nel raggio di un centinaio di chilometri. (Il 210° giorno)

Il titolo in sé è una forte critica al governo Meiji, macchiatosi della colpa di avere abolito una tradizione che, in questo caso, avrebbe aiutato i protagonisti a portare termine la loro impresa.

La forza del mutamento 

Elementi tipici della poetica di Natsume Sōseki, presente nel racconto, sono i dualismi passato e presente, tradizione e modernità, visibili proprio dalla scelta del vulcano Aso. Infatti essa ricade su uno dei vulcani più alti del Giappone, ai cui piedi sorge lo “Aso jinja”, tempio strettamente legato alla tradizione giapponese. Lo stesso è, non a caso, dedicato Takeiwatatsu-no-Mikoto, nipote del primo imperatore del Giappone, Jinmu.

Con la sua eruzione esplosiva, pone simbolicamente termine a un’epoca- quella del Giappone premoderno – e segna l’inizio di un nuovo importante capitolo della storia del paese. (Andrea Maurizi, Postfazione de Il 210° giorno)

L’eruzione del vulcano pone fine alla tradizione, chiudendo definitivamente con il periodo Tokugawa.”L’evocazione della forza distruttrice della natura in concomitanza di un momento di crisi e di un radicale mutamento delle condizioni storico-politiche”, non fa che sottolineare la traumaticità e la dannosità di eventi forti e inattesi.

Un’amicizia improbabile

Kei e Roku sono l’uno l’opposto dell’altro. Kei è un ragazzo corpulento, figlio di un “produttore e venditore di tōfu” e che ignora la cultura giapponese. Roku, al contrario, è di corporatura minuta, proviene da una famiglia facoltosa ed è molto acculturato. A differenza di Kei, Roku si dimostra poco interessato alla letteratura e cultura “occidentale”; afferma infatti di conoscere La sfida di Iga, ma di non aver mai letto niente di Dickens.

Un’amicizia improbabile quella tra Roku e Kei volta a evidenziare un altro problema dell’uomo moderno: l’individualismo. L’amicizia tra i due è possibile fino a quando  la libertà dell’altro viene rispettata, afferma Sōseki. In epoca Meiji, troviamo tra i  fondamenti  l’esaltazione dell’individuo, per cui ognuno è libero di perseguire la propria felicità, anche se in contrasto con la società; questo porta all’affermarsi del romanzo dell’io, lo shishōsetsu.

Lo smarrimento dell’uomo moderno

Seppure breve, Il 210° giorno racchiude in sé tutta la poetica di Sōseki. Emerge fin dalle prime pagine quello che l’autore identifica come un forte smarrimento dell’uomo moderno, che lascia, in particolare a Roku, un senso di angoscia e inquietudine. Sono infatti molti gli episodi in cui Roku manifesta questi sentimenti.

La forte ondata di “occidentalismo” procura all’ individuo un sentimento di inquietudine e  smarrimento. L’Occidente viene preso come modello sia a livello di istituzioni che di usi e costumi; al contempo il Giappone cerca di cancellare, almeno alla vista, elementi che possano richiamare ad una tradizione considerata dagli europei inferiore. Vi è la necessità che il paese appaia forte, occidentale, moderno e colonizzatore, al fine di non essere dominato come gli altri paesi asiatici in quel periodo. Cambiamenti  rapidi e veloci non possono fare altro che disorientare l’intera nazione, come lo stesso scrittore afferma:

Il pensiero dell’era Meiji ripercorreva nel giro di quarant’anni tutta la strada che la storia dell’Occidente aveva fatto in tre secoli. (Sanshirō, 1908).

Conclusione

Lascio la conclusione al  traduttore di questo racconto breve, Andrea Maurizi:

I riferimenti letterari e […]  alla letteratura di intrattenimento del XIX secolo conferiscono all’opera la solidità che solo la tradizione è in grado di assicurare, impreziosendo e nobilitando un racconto che ben si presta a rappresentare lo spessore intellettuale e l’originalità di uno degli scrittori giapponesi più conosciuti e amati in Occidente.

—di Beatrice Falletta