Nato nel 2020 dalla penna di Aoyama Michiko, il romanzo Finché non aprirai quel libro (titolo originale お探し物は図書室まで, Osagashimono wa toshoshitsu made) intreccia armoniosamente le vite di cinque persone che, a prima vista, nulla hanno a che fare l’una con l’altra. Ogni capitolo narra la vita di una di loro, cominciando da Tomoka, giovane donna che ambisce a un lavoro migliore. A seguire, Ryō, che sogna di aprire un giorno un negozio di antiquariato; Natsumi, madre e lavoratrice continuamente impegnata in un tiro alla fune tra i due ruoli; Hiroya, ancora in cerca di una strada da seguire. Infine Masao, un pensionato che si confronta col senso di vuoto lasciato dal termine della carriera.
Età diverse, situazioni e necessità diverse, sogni tanto differenti quanto all’apparenza intangibili. Tramite la voce in prima persona dei personaggi l’autrice riesce a costruire per ogni capitolo dei mondi completi, indipendenti dagli altri e al tempo stesso strettamente legati tra loro da una figura eccentrica e misteriosa, quella della signora Komachi, la proprietaria di un’umile biblioteca nascosta in un quartiere di Tokyo. Infatti, ognuno di loro si ritrova per qualche motivo ad entrare nell’edificio, in cerca di… qualcosa.
Superando un separé sovrastato da una targa che recita “bibliografia” ad aspettarli c’è la signora Komachi Sayuri, che sorprende per la grossa stazza umoristicamente in antitesi con un portamento elegante e una voce soave in grado di ammaliare il cuore. Se, a primo impatto, tutti rimangono colpiti dalla figura della donna, quello che li lascia davvero destabilizzati è una semplice frase, una domanda, che li interroga su una questione altrettanto banale all’interno di un contesto come quello di una biblioteca. Con tono gentile ma imponente, la signora Komachi scruta ognuno di loro e chiede: “Che cosa cerca?”.
Così, ognuno se ne va per la propria strada portando con sé i libri richiesti in prestito e, non senza un velo di titubanza, un libro completamente sconnesso da questi ultimi, infilato tra la pila dalla bibliotecaria senza un apparente motivo. Un errore, o forse la spinta che serviva davvero per pensare, ricordare e scoprire finalmente ciò che il cuore davvero desidera. Una spinta mirata non all’offrire risposte, bensì ad aprire nuove possibili strade da percorrere al di là del vicolo cieco in cui la vita li aveva intrappolati.
Ogni capitolo, nonostante sia incentrato su essenziali storie di quotidianità, riesce deliziosamente a districare la complessità dell’animo umano, ingabbiato in una routine che scivola inesorabilmente verso sogni sepolti e accantonati in favore di una moderna lotta per la sopravvivenza. Finché non aprirai quel libro è un inno alla vita, alla riscoperta di sé, al coraggio di rimettersi in gioco…
E, forse, quello che anche voi state davvero cercando.
Miike Takashi (nato a Yao, nella prefettura di Osaka, nel 1960) è uno dei registi più prolifici e controversi del cinema giapponese contemporaneo. Miike si è fatto notare sin dagli anni ’90 per la sua straordinaria produttività e la sua capacità di spaziare tra i generi più disparati. Con oltre cento opere all’attivo tra film, cortometraggi e serie televisive, ha costruito un universo cinematografico eccentrico, violento, grottesco ma spesso anche profondamente ironico.
Ha debuttato nel 1991 come regista con Eye Catch Junction, un film d’azione realizzato per il mercato dell’Home Video. Nonostante sia spesso associato al cinema di genere – horror, yakuza, azione – Miike non è mai stato un autore “di nicchia”. La sua filmografia include titoli cult come Audition (1999), Ichi the Killer (2001), 13 Assassins (2010) e Hara-Kiri: Death of a Samurai (2011), ma anche adattamenti di manga (Ichi the Killer, Crows Zero), incursioni nel musical (The Happiness of the Katakuris) e progetti su commissione per il mercato internazionale.
Uno degli aspetti più affascinanti del suo stile è la capacità di sovvertire le regole del genere che sta trattando. I suoi film oscillano tra il realismo estremo e l’assurdo totale, con una libertà espressiva che riflette la sua visione dissacrante e imprevedibile del mondo. Miike gioca con l’eccesso, con la violenza iperbolica, con il black humor e con i cliché.
Nonostante la sua produzione sia stata a lungo considerata marginale rispetto ai circuiti ufficiali, negli ultimi anni Miike ha ricevuto importanti riconoscimenti internazionali ed è stato invitato in festival come Cannes, Venezia e appunto il FEFF. Il suo cinema, che inizialmente poteva sembrare puro intrattenimento provocatorio, è oggi oggetto di studio accademico e rivalutato anche dal punto di vista culturale e sociale.
La presenza di Miike Takashi al Far East Film Festival è ormai una costante che testimonia la sua importanza nel panorama cinematografico asiatico contemporaneo. Il FEFF, da sempre attento a promuovere le sfaccettature più dinamiche del cinema dell’Estremo Oriente, ha spesso accolto le sue opere, contribuendo a far conoscere al pubblico europeo la radicalità e la versatilità del suo linguaggio. In un’epoca in cui il cinema giapponese si confronta con nuove sfide culturali e produttive, Miike continua a rappresentare una voce fuori dal coro: irriverente, prolifico e instancabile nel reinventarsi. La sua filmografia, ancora oggi in continua evoluzione, invita gli spettatori a superare le convenzioni e a lasciarsi travolgere da un’esperienza visiva unica e provocatoria.
Al Far East Film Festival 27 (FEFF27) di Udine oggi sono stati proiettati, presso il cinema Visionario, due film di Miike Takashi, entrambi ispirati al classico del 1968 “Yokai Monsters: Spook Warfare”:
The Great Yokai War (2005)
The Great Yokai War: Guardians (2021)
Queste proiezioni fanno parte di una retrospettiva dedicata al folklore giapponese e ai mostri tradizionali, tema centrale del FEFF27. Queste opere cinematografiche offrono un’opportunità unica per analizzare come Miike reinterpreti le creature del folklore giapponese attraverso il cinema.
Adachi Shin, nato nel 1972 nella prefettura di Tottori, è uno degli autori più originali e riconoscibili del panorama cinematografico giapponese contemporaneo. Sceneggiatore di successo e regista dalla sensibilità unica, Adachi si è costruito una carriera a partire dal margine, raccontando storie di personaggi scomodi, falliti, fragili ma profondamente umani. Il suo stile mescola umorismo grottesco, introspezione sociale e un’ironia tagliente, sempre accompagnati da un profondo affetto per i suoi protagonisti.
Dopo essersi laureato all’Istituto giapponese di cinema ed essersi formato come assistente alla regia, Adachi approfondisce il proprio percorso sotto la guida del regista Somai Shinji. I suoi primi passi lo vedono impegnato tra teatro e cinema, ma è con 100 Yen Love (2014) che arriva la svolta: un dramma sportivo che racconta la rinascita di una donna emarginata attraverso la boxe. Grazie a questa sceneggiatura, Adachi conquista importanti riconoscimenti, tra cui il Japan Academy Film Prize, e il film viene selezionato per rappresentare il Giappone agli Oscar. Anni dopo, la pellicola ispirerà anche il successo cinese YOLO, a dimostrazione del potere universale delle sue narrazioni.
Presentato quest’anno al FEFF, Good Luck (2024) segna il ritorno di Adachi Shin alla doppia veste di regista e sceneggiatore, con un road movie dall’atmosfera intima e sottile. Al centro della storia c’è Taro, un giovane regista bloccato dall’insicurezza e dalla passività, che viene invitato a presentare il suo documentario in una storica sala di Oita. Dopo una proiezione accolta con freddezza, Taro si ritrova inaspettatamente a condividere un viaggio con Sunahara Miki, una donna enigmatica conosciuta per caso. I due, tra incontri surreali e confessioni spontanee, si lasciano trascinare da una complicità fatta di tenerezza, ironia e disorientamento. Nessun sentimentalismo gratuito, nessun dramma lacrimevole: solo un legame genuino tra due persone alla deriva. Con questo film, Adachi adotta una comicità discreta, costruita su silenzi, tempi sospesi e momenti di assurda quotidianità, confermando la sua attitudine a sfidare le convenzioni narrative con grazia e intelligenza.
Al centro del cinema di Adachi ci sono personaggi fragili e disorientati: uomini inetti, confusi, fuori sincrono rispetto alla società che li circonda. Eppure, anziché condannarli, Adachi li accompagna con tenerezza, mettendone a nudo debolezze e insicurezze senza mai indulgere nel giudizio. Temi come il fallimento, l’isolamento, la pressione sociale o l’ansia creativa tornano spesso nei suoi racconti, affrontati con un’ironia malinconica che rimane sempre lontana dal cinismo.
Il suo attuale riconoscimento è il risultato di un percorso lungo e tutt’altro che lineare, segnato da fatica, perseveranza e da un’ostinata volontà di raccontare storie fuori dal coro. Cruciale, ha dichiarato oggi il regista al FEEF Talk – Japan, il supporto ricevuto da parte di sua moglie e producer Adachi Akiko, figura fondamentale per la vita e per la carriera di Adachi Shin
Oggi Adachi è una delle voci più originali del cinema giapponese contemporaneo: i suoi film mettono a fuoco l’inadeguatezza quotidiana, le relazioni incrinate, l’assurdità del vivere – ma lo fanno con grazia, evitando tanto il melodramma quanto la retorica. In un contesto dominato spesso da prodotti costruiti per piacere, Adachi continua a scegliere l’autenticità.
Tsugumi, romanzo della ormai celebre scrittrice Yoshimoto Banana (1964 – oggi), venne pubblicato a puntate nell’edizione giapponese della rivista Marie Claire, per poi essere raccolto in volume nel 1989 ed arrivare in Italia nel 1994 per Feltrinelli. Nel 1990 è stato adattato in un film omonimo, diretto da Ichikawa Jun.
Il romanzo è ambientato in un tranquillo villaggio di pescatori, dove la protagonista e voce narrante, Shirakawa Maria, ha trascorso la sua infanzia insieme alla madre. Per anni, infatti, le due hanno vissuto presso la pensione Yamamoto, gestita dagli zii Masako e Tadashi, nell’attesa di potersi ricongiungere al padre, impegnato nella finalizzazione del suo divorzio. Quando finalmente il piano viene trasformato in realtà, Maria, ormai diciannovenne, si vede catapultata a Tōkyō, dove inizia il suo percorso universitario. La vita nella grande metropoli viene però accompagnata da una grande nostalgia e il ritorno della ragazza al proprio villaggio durante le vacanze estive, su invito della cugina e amica Tsugumi, è anche per questo carico di emozioni contrastanti. È proprio di questa intensa esperienza che tratterà il romanzo; un’estate carica di avvenimenti irripetibili che, come un pallido sogno, vivrà sempre dentro i cuori dei suoi protagonisti.
Tsugumi, cui fa riferimento il titolo, è – insieme alla sorella Yōko – una delle due cugine della narratrice, nonché figura centrale delle vicende. Fin dalle prime pagine viene caratterizzata come una ragazza bellissima ma “impossibile”: nata molto debole e affetta da gravi problemi di salute, è cresciuta coccolata e protetta, sviluppando però tratti irrazionali e diventando capricciosa, maleducata e spesso quasi crudele, sebbene si mostri sorprendentemente affabile con gli estranei. I momenti di grave debolezza fisica di Tsugumi, che spesso la costringono a recludersi nella sua stanza o ad essere ricoverata in ospedale, si alternano ai suoi svariati sfoghi e dispetti, i quali a volte sorprendono perfino la narratrice. Eppure, Maria riesce spesso a cogliere nelle parole e azioni dell’amica una più profonda verità sul suo modo di vivere e sull’energia incredibile che le sembra quest’ultima emetta.
L’estate passa velocemente tra le passeggiate notturne con il cane dei vicini, Pochi, i rumori delicati della natura e del mare, i ritmi scanditi dalla vita alla pensione Yamamoto e le incoerenze di Tsugumi, che non cessano nemmeno quando si innamora di Kyōichi, un ragazzo dal carattere energico e lo sguardo vissuto che si è appena trasferito in paese. Con lui, le ragazze passeranno momenti allegri, ma anche struggenti, che le porteranno a riflettere sulla fugacità della vita e sulle inevitabili separazioni da ciò che ci è caro.
Il giovane gruppo di amici vivrà ciò che la narratrice percepirà in seguito come una specie di miraggio. Cullato da uno stile di scrittura scorrevole e riflessivo, anche il lettore avrà modo di immergersi in un tale mosaico di immagini e sensazioni dolceamare. Come sottolinea l’autrice stessa, le giornate passate così, dopotutto, rappresentano proprio ciò che ci aiuta ad andare avanti nella vita: la speranza di rivivere, prima o poi, momenti di felicità così immensa e concentrata da dare un senso più profondo alla nostra esistenza.
Dopo gli incontri con “Favole del Giappone” e “Un’estate a Zushi“, continua la rassegna di incontri sulla collana di Luni Editrice “Arcipelago Giappone”, Questa volta parleremo de “I racconti del vecchio Miura” di Okimoto Kidō. A tenere l’incontro ci saranno il direttore della Rassegna Francesco Vitucci e il traduttore stesso del libro Marco Taddei.
L’incontro si terrà presso la Biblioteca Salaborsa il 24 Gennaio alle ore 18, vi aspettiamo numerosi!
Commenti recenti