Autrice: Yū Miri

Traduttrice: Laura Solimando

Editore: Atmosphere Libri

Edizione: 2020

Per lei era finita. La vita, però, andava avanti.

“Il paese dei suicidi” di Yū Miri è un romanzo che inizia con la fine. Tutto ciò che poteva accadere di felice nella vita della protagonista è già successo, non resta che vuoto e inadeguatezza.

Mone è un’adolescente all’inizio delle scuole superiori ed è del tutto chiusa in se stessa. Il rapporto con i genitori è praticamente inesistente. Il padre ha un’amante e la madre ne è consapevole, per questo ha in piano di fuggire insieme al figlio favorito, Satoshi. Anche a scuola la situazione non è migliore. Mone ha sì un gruppo di amiche con cui passare i pomeriggi, ma si può parlare di amicizia se il rapporto si basa unicamente sulla ricerca continua dell’approvazione della leader? Tra discussioni frivole su quale cibo sia più alla moda e quale colore sia più di tendenza, Mone cerca di restare a galla, perché essere tagliata fuori dal gruppo significa diventare invisibile anche per il resto della scuola.

Mone vuole morire.

Il romanzo si apre con un thread di un blog dedicato a chi, come lei, vuole togliersi la vita.

Su questo sito, non è difficile per Mone trovare un gruppo di persone con cui organizzarsi per suicidarsi insieme.

“Il paese dei suicidi” scaturisce indubbiamente dall’esperienza personale dell’autrice. Yū Miri, infatti, è stata soggetta a bullismo così forte a causa delle sue origini coreane da tentare il suicidio numerose volte in giovane età. È ben evidente la carica critica alla società giapponese, che emargina il singolo al punto che anche nell’atto estremo del suicidio si sente la necessità di trovare dei compagni sconosciuti, per non gravare su familiari e amici con i propri disturbi.

Tra la negligenza dei genitori e le amicizie fasulle a scuola, l’unica strada percorribile secondo Mone è quella del suicidio.

Purtroppo il personaggio di Mone non è indagato in maniera ottimale, sembra più un guscio vuoto che vuole contenere in poche pagine un’esperienza di vita assai più complessa. Ne consegue una narrazione a tratti impersonale e quasi superficiale, fermo restando che l’apatia è uno dei sintomi depressivi che più si evidenzia nella giovane protagonista.

Tuttavia a lettura terminata la mente del lettore resta affollata di immagini vivide, difficili da dimenticare, per quanto il contesto dato dal romanzo possa risultare scarno. Mone davanti ai binari del treno con la sua divisa scolastica; la luce calda e infuocata nella macchina in cui il gruppo ha deciso di suicidarsi; l’amato peluche di Mone, l’unico che l’ha vista piangere.

Sono sempre le percezioni di Mone a rendere la morte, prima un’idea lontana quasi fosse un sogno, un’esperienza improvvisamente concreta, che sembra addirittura di poter toccare con mano.

Conoscendo il mondo di Mone unicamente tramite le sue parole e i suoi sensi, più che le descrizioni sono i suoni a rendere vive le ambientazioni e l’atmosfera del romanzo. Siamo inondati dalle onomatopee del treno che sfreccia sui binari, le stazioni annunciate all’altoparlante, e il chiacchiericcio ovattato delle altre studentesse che intervallano i pensieri di Mone.

Tutti rumori di un mondo che non le appartiene e al quale lei non sente di appartenere.

Elena Angelucci