Un’esperienza personale – Ōe Kenzaburō || Recensione

Autore: Ōe Kenzaburō

Opera: Un’esperienza personale

Anno: 1964

Una tra le opere più note del Premio Nobel per la letteratura Ōe Kenzaburō, “Un’esperienza personale” narra un periodo travagliato della vita del protagonista, Tori-Bird.

Professore di una scuola di preparazione per gli esami di ammissione all’università, Tori-Bird si trascina in un’esistenza stanca e monotona, trovando una via di fuga dalla vita quotidiana solo nella sua ossessione per l’Africa e nella speranza di un viaggio verso quel continente lontano, sognato come terra di avventure in cui provare il proprio coraggio. Quando sua moglie partorisce un bambino con un’apparente ernia cerebrale per cui i dottori prevedono una speranza di vita di soli pochi giorni, il protagonista si trova a dover fare i conti con le proprie battaglie interiori e i fantasmi irrisolti del proprio passato. Oppresso da un senso di vergogna verso sé stesso e la fragilità del corpo umano, Tori-Bird deve gestire una situazione complessa ed emotivamente devastante, barcamenandosi in un mondo incerto fatto di ospedali e medici; anche la vita familiare ne viene complicata, dovendo nascondere la notizia della condizione del figlio alla moglie convalescente e gestire un rapporto già difficile con i suoceri.

Il protagonista risponde quindi alla nuova situazione nell’unico modo che conosce: fuggendo. Una fuga che è non solo fisica, come esemplificato dalla corsa iniziale in bicicletta, ma anche e soprattutto morale e spirituale. La sua mente si rifugia spesso negli immensi spazi africani ma anche questi sembrano incapaci di fornire conforto, celando trappole insidiose. Cerca allora una via di fuga nel whisky, vecchio vizio che l’aveva già spinto ad abbandonare il corso di specializzazione negli anni dell’università. Anche questo si rivela però un rifugio temporaneo e insidioso, traducendosi in terribili postumi che comprometteranno la sua vita lavorativa.

Tori-Bird è un personaggio debole, incapace sia di azione che di reazione, che posto davanti a un durissimo quesito morale rifugge dalla scelta e si nasconde in una tana buia, limitandosi ad aspettare  passivamente il corso degli eventi. Anche il colloquio con il direttore della scuola dimostra l’incapacità del protagonista di lottare: Tori-Bird non prova nemmeno a difendere il proprio posto di lavoro e rifiuta l’aiuto offertogli da alcuni suoi studenti, accettando semplicemente il dipanarsi degli eventi e non elaborando nessun piano per il futuro.

La forma di fuga suprema è costituita dall’amante Himiko. Vedova di un suicida, la donna passa le giornate chiusa in camera al buio a fumare, filosofeggiare e ricevere le visite dei suoi vari ammiratori, sfrecciando durante la notte sulla sua macchina sportiva. Tori-Bird trova nella sua casa una tana buia e sicura dove aspettare senza agire la morte del suo bambino; il loro rapporto rappresenta una sorta di forma di regressione che prova a rimediare agli errori del passato e che permette al protagonista maschile di trovare conforto, dimenticando la paura e il rigetto che provava nei confronti della natura femminile dopo la notizia del problema del suo bambino, portando a maturità la sua sfera sessuale. È un rapporto che sembra essere in una prima fase quasi costruttivo: tuttavia anche questo si caratterizza per un momento come una futile fuga. L’idea del divorzio dalla moglie e di un viaggio in Africa con Himiko non è altro che l’ultimo, estremo tentativo di rivendicare una libertà possibile e immaginata di fronte alla minaccia della gabbia delle responsabilità familiari, esemplificate dalla figura onnipresente del “bambino-mostro”. Il rifiuto dell’intervento non è infatti altro che il rigetto totale della responsabilità, che si manifesta ancora una volta in una fuga in macchina verso la clinica abortista. Il protagonista ha finalmente deciso di agire, ma anche questa decisione sembra guidata più da Himiko che dal protagonista, che si limita ancora una volta a lasciarsi trascinare dagli eventi.

Solo nel finale Tori-Bird riesce a prendere una decisione veramente propria. In un bar gay gestito da Kikuhiko, un amico che Tori-Bird aveva abbandonato anni prima e da cui il figlio prende il nome, il protagonista vomita subito dopo aver ingerito un solo bicchiere di whisky, simbolo del rigetto di anche quella forma di fuga per lui tanto rassicurante. Improvvisamente sicuro, decide di smettere di fuggire e di abbracciare le proprie responsabilità, abbandonando il progetto del tanto sognato viaggio in Africa e decidendo di far sottoporre il figlio all’operazione.

L’opera si conclude in maniera relativamente serena, mostrandoci un Tori-Bird inserito nel suo ruolo di padre all’interno di una famiglia ricostituita e maturato o, per dirla con le parole dell’austero suocero, “cambiato”; deciso ad accettare la sua responsabilità e la sua nuova vita, è pronto a intraprendere una nuova carriera. Così come, all’inizio del romanzo, il pensiero del figlio in arrivo dà al protagonista la forza di smettere di scappare e di difendersi dal gruppo di giovani teppisti che l’avevano circondato e assalito, il bambino aveva vinto, dandogli la forza di affrontare la paura della responsabilità e di costruirsi un futuro, correggendo il suo costante istinto alla fuga. Tori-bird non sogna più rocambolesche avventure nella lontana Africa: con i piedi per terra, vuole adesso diventare una guida turistica in Giappone.

Sempre centrale è l’analisi della psicologia del protagonista, che funge da filtro costante della narrazione. L’intera opera è narrata mediante i suoi meccanismi psicologici; in una maniera quasi egocentrica ed interamente autoriferita, gli altri personaggi sono solamente abbozzati, presi in considerazione solo in funzione della loro interazione con il protagonista. Lontano però dal rappresentare una figura titanica, egli è un uomo piccolo e inetto, incapace di occupare l’opera con l’azione: la narrazione è quindi riempita dalle sue ombre, incertezze e paure, rappresentate dalla figura del “Bambino-mostro” e dal ricorrente terrore per il vuoto che circonda l’esistenza e un eventuale Giudizio.  Conscio delle proprie debolezze e dei propri limiti, cede all’autocommiserazione, si affligge fino al masochismo. Solo nella parte finale Tori-Bird riesce a raggiungere una totale, improvvisa redenzione, evitando le “trappole” che ha incontrato lungo il cammino e arrivando ad un’inaspettata maturità.

Complesso ed emotivamente denso, questo romanzo contiene molti elementi autobiografici. Vi si intravede nettamente lo sforzo dell’autore di comprendere e rielaborare la propria esperienza personale, di indagarla con uno sguardo fortemente autocritico e con una profondità ineguagliabile di analisi psicologica che fanno risaltare ancora di più lo sforzo e la totalità della metamorfosi finale. Questi elementi rendono l’opera interessantissima per il lettore, che non può evitare di rimanere emotivamente coinvolto negli eventi narrati –anche se spesso trascinandosi dietro una distinta sensazione di amarezza.

Recensione di Mattia Natali

Ōe Kenzaburō – Insegnaci a superare la nostra pazzia

Autore: Ōe Kenzaburō

Titolo: Insegnaci a superare la nostra pazzia

Editore: Garzanti

Traduzione: Nicoletta Spadavecchia

Edizione: 2009

Pagine: 203

“Insegnaci a superare la nostra pazzia” è una raccolta di quattro brevi romanzi dai tratti semiautobiografici, appartenente allo scrittore Ōe Kenzaburō (大江 健三郎) insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1994; scritti in periodi differenti, condividono come leitmotiv la follia che può affliggere ogni uomo, l’inquietudine esistenziale e una realtà cruda e opprimente. Gli stilemi linguistici adottati dallo scrittore e la ricchezza lessicale per nulla casuale reiterano nel lettore un senso d’angoscia che rende la lettura a tratti impervia. Una lettura folle e perturbante, come la realtà rappresentata, che mira a mettere in subbuglio i moti dell’animo.

“Il giorno in cui lui mi asciugherà le lacrime”, racconto pubblicato nel 1972, esordisce con un io narrante inaffidabile: protagonista è un paziente affetto da cancro al fegato che, alla vigilia della sua morte, ripercorre i “giorni felici” della sua vita e l’influenza che “quell’uomo” ha avuto su di essa, una “storia contemporanea” che egli detta ad una “esecutrice testamentaria” in cui riemergono rancore per la madre e folli e mendaci rivelazioni di cui egli stesso è vittima. Difatti il protagonista si scopre essere un paziente ricoverato nel reparto neurologico dell’ospedale, affetto da una curabile cirrosi, ma che brama la morte come azione di rivalsa nei confronti della madre. Una trama tortuosa in cui il punto di vista del narratore vacilla tra menzogne e verità; pagine che rispecchiano la psiche di un folle in cui la realtà risulta fallace e priva di appigli. Magistralmente Kenzaburō emula il pensiero di un folle, addentrandosi nella sua mente, districandosi nella selva di mistificazioni da lui create, fino a giungere al trauma infantile che ha provocato tutto ciò: un padre invasato che non accettava la disfatta del Giappone nel 1945 e la conseguente resa dell’imperatore. Lo shock arrecatogli da “quell’uomo” e il rapporto conflittuale con la madre sono le premesse del baratro.

“L’animale d’allevamento”, racconto del 1958 grazie a  cui lo scrittore ricevette il premio Akutagawa, narra il trauma di un passaggio repentino e violento dall’infanzia alla vita adulta che il protagonista, bambino di un anonimo villaggio, subisce durante la guerra del pacifico in Giappone. La guerra, apparentemente lontana, irrompe nella quotidianità arretrata e misera del villaggio con la cattura di un “soldato negro”, a cui il titolo dell’opera fa riferimento. Gli epiteti che contrassegnano il soldato simbolizzano l’evoluzione del rapporto che intercorre tra lui e il villaggio, nonché il processo di deumanizzazione del nemico in tempo di guerra, che viene decostruito da essere umano a “preda”, “animale d’allevamento”  e infine “animale domestico”, quando gradualmente egli entra a far parte della vita dei bambini del villaggio. Un rapporto in cui lo scrittore ci illude che possa esserci un lieto fine e che invece tronca con la presa in ostaggio dell’io narrante da parte del soldato, non appena la sua incolumità viene messa a rischio. L’intesa iniziale viene spezzata dalla guerra che sembra solo una cornice lontana e che, al contrario, frantuma con veemenza il quadro delineato: “Tutto il sotterraneo fu un ululare di adulti e sentii lo sfracellarsi della mia mano e del cranio del soldato negro”.

“Insegnaci a superare la nostra pazzia”, scritto nel 1969, si ricollega al primo racconto, con una collocazione cronologica antecedente rispetto a quest’ultimo, e pone i preamboli che condurranno il protagonista alla pazzia. Emergono fin da subito due rapporti antitetici tra loro: l’antagonismo madre-figlio e il binomio morboso tra un padre apprensivo e il figlio malformato. Saranno proprio la frattura del rapporto con il figlio, quando il protagonista comprende che egli può vivere senza di lui, e la guerra dichiarata alla madre attraverso il desiderio di voler scrivere una “biografia rivelatrice” sul padre, a creare una scissione interna liberatoria, ma foriera della sua follia. Un racconto che rimanda palesemente il lettore alla vita privata di  Ōe Kenzaburō e al rapporto con il figlio Hikari, affetto fin dalla nascita da una gravissima lesione cerebrale.

“Aghwee il mostro celeste”, pubblicato nel 1964, conclude la raccolta riproponendo il tema della pazzia scaturita dal rimorso di un padre:  Aghwee, la creatura immaginaria dalle sembianze infantili, “grande come un canguro con una camicia di cotone bianco”, che solo egli  riesce a vedere, si scopre altro non essere che il fantasma di suo figlio. Quando alla nascita gli venne diagnosticata erroneamente un’ernia cerebrale, il padre lo fece morire, non disposto “ad accudire un figlio che avrebbe avuto soltanto funzioni vegetative”. Quando poi dall’autopsia si rivelò essere un semplice tumore benigno, il padre cominciò ad avere allucinazioni. Ciò è punto di partenza per un cielo di esseri fluttuanti che ogni tanto fanno una visita in terra, come Aghwee, nome che probabilmente si riferisce al mugolio del bambino, unico verso che gli fu permesso emettere nella sua breve esistenza. Un uomo segnato dalle sue scelte, che afferma di non vivere nel “tempo presente”, e che si condanna all’espiazione finale, ovvero la sua morte.

“Insegnaci a superare la nostra pazzia” è una raccolta in cui si annidano le peggiori inquietudini dell’uomo e in cui la follia si erige  quasi come una condizione contagiosa in cui ognuno di noi può precipitare e soccombere. Un’opera  che non soltanto lascia il lettore in uno stato d’amarezza, ma lo mette a confronto con timori e riflessioni sulla precarietà della vita. Ōe Kenzaburō conferma, con tale opera e le tematiche scomode da lui sviscerate, la fama di massimo scrittore del ventesimo secolo  attribuitagli indiscussamente.

 

– di Riccardo Peron


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