My darling is a foreigner (2010)

  ダーリンは外国人

My darling is a foreigner 

(Giappone, 2010)

Regia: Ue Kazuaki

Cast: Inoue Mao, Jonathan Sherr

Genere: commedia, sentimentale

Durata: 100 minuti

Tratto dal manga ダーリンは外国人 (Darling wa gaikokujin) di Oguri Saori, racconta l’esperienza autobiografica dell’autrice con il giornalista americano Tony Laszlo.

 

Essere un 外国人 (gaikokujin)

Nel film Saori, il cui sogno è diventare disegnatrice di manga, vede Tony, per caso, sul treno e, subito dopo, lo incontra durante un evento a cui entrambi stanno lavorando. Lui è un appassionato di lingua giapponese e, infatti, la parla fluentemente. Tuttavia, è comunque considerato un “gaikokujin“, uno straniero. Questo emerge già da una delle prime scene, in cui lui chiede informazioni per strada in perfetto giapponese ma, in un primo momento, viene liquidato con un “non parlo inglese”, finché non usa una forma più dialettale e riesce ad ottenere l’attenzione del passante.

Il tema è riproposto poi con l’incontro tra Tony e la famiglia di Saori, in occasione del matrimonio della sorella. I genitori di Saori scambiano inizialmente Tony per l’officiante della cerimonia (avendo entrambi tratti occidentali), per poi rimanere stupiti e delusi quando viene presentato loro come il fidanzato della figlia. La madre inizialmente si lamenta della situazione, ma poi finisce per accettare Tony e farlo sentire incluso. Cosa che non avviene, invece, con il padre, che si dichiara contrario e fermamente deciso a non accettare la relazione.

La situazione cambia con la morte improvvisa del padre di Saori. Oltre al dolore per la perdita, la giovane sente il peso della definitiva non accettazione di Tony, il quale a sua volta si sente privato della possibilità di riscattarsi. Questo già sembra far vacillare le loro certezze riguardo alla relazione, inoltre Tony fa visita alla famiglia negli Stati Uniti aggiungendo la distanza fisica a quella emotiva.

Convivere con le differenze

A riportare equilibrio ci pensa la madre di Saori, che mostra alla figlia un libro comprato dal marito per imparare a fare conversazione in inglese. Questo prova che, a dispetto dell’apparente rigidità, era disposto a scendere a compromessi per la figlia e superare i propri limiti, linguistici e non. Inoltre, la madre racconta la storia della loro colazione “particolare” composta da toast e zuppa di miso. All’inizio del loro matrimonio, infatti, preparava al marito una colazione tradizionale, nonostante lei volesse dei semplici toast. Quando arrivò ad ammettere che ne aveva abbastanza, il marito, sorpreso, le rispose tranquillamente che poteva cucinare quello che voleva, purché ci fosse della zuppa di miso per lui. Così cominciò quella che poi diventò una tradizione di famiglia. La morale è che le diverse tradizioni possono convivere ed evolversi nel tempo, diventando a loro volta nuove tradizioni. La vita, di coppia e non solo, è riconoscere le differenze dell’altro, accettarle e condividerle.

Indirettamente, Saori ottiene anche l’approvazione del padre, trovando il coraggio di ricongiungersi con Tony.

Siamo tutti stranieri

Anche Saori, pur vivendo nel suo Paese di origine, sperimenta la sensazione di isolamento e incomprensione quando si ritrova circondata dagli amici di Tony, che parlano solo inglese tra loro e che lei fatica a capire. Quando poi raggiunge Tony in America, pensa tra sé “tutti stranieri”, per poi fermarsi e capire che è lei, lì, ad essere la straniera. Sono il contesto e il punto di vista a fare la differenza. Siamo tutti stranieri quando ci allontaniamo dalla nostra casa, dai nostri cari, dalle nostre abitudini e dalla nostra lingua. Eppure è proprio attraverso la lingua che possiamo sentirci accolti e accogliere l’altro. Saori, arrivata in America, durante una cena con la famiglia di Tony, tira fuori un foglio di carta per leggere un discorso in inglese che si era preparata. Con sua sorpresa, anche gli altri hanno fatto lo stesso, e la ringraziano per la cena con un “Gochisousama”. 

Conclusioni

È una commedia carina e dolce, che tratta in modo leggero quello che è un tema sempre più comune, in un mondo come il nostro in cui le persone si trasferiscono anche molto lontano dal proprio Paese. Le barriere linguistiche, culturali, sociali ci sono, ma possono essere abbattute. Le tradizioni e le società sono un prodotto umano e, come tali, si possono sempre evolvere nel tempo e arricchire grazie alla “diversità”.

 

—  recensione di Cecilia Manfredini.


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A boy and his samurai (2010)

ちょんまげぷりん Chonmage Purin

Regia: Nakamura Yoshihiro

Cast:  Nishikido Ryo, Tomosaka Rie, Suzuki Fuku

Genere: Commedia

Durata: 1h 48 min

Basato su “Fushigi no Kuni no Yasubei” dello scrittore Araki Gen

 

Trama

Yasube Kijima è un giovane samurai del periodo Edo, che improvvisamente viene trascinato da forze misteriose in un viaggio nel tempo di 180 anni e finisce per ritrovarsi nella Tokyo del XXI secolo. Per caso incontra Hiroko, giovane donna divorziata e madre del piccolo Tomoya. Nonostante le incomprensioni iniziali, i due aiutano Yasube, ospitandolo a casa loro in attesa di trovare una soluzione e il samurai per sdebitarsi inizia ad occuparsi della casa e di Tomoya mentre Hiroko è a lavoro. Questa convinvenza riesce a dare a ognuno di loro quello di cui aveva bisogno: a Hiroko più tempo per concentrarsi sul lavoro ed essere presa sul serio, a Tomoya una figura maschile di riferimento in assenza del padre, infine a Yasube uno scopo nella vita. Infatti, il samurai scopre di avere grande talento nella pasticceria, finendo per competere in uno show televisivo con Tomoya. Come reagirà Yasube alla scoperta della sua nuova vocazione? Riuscirà a non trascurare i legami che ha costruito?

 

 

Tradizione o modernità?

Il dualismo principale che il film mette a confronto è tra passato e presente, tradizione e modernità. Lo stesso Yasube si impegna nella pasticceria come se fosse una sfida tra la sua Edo e la Tokyo in cui è come un pesce fuor d’acqua. Le differenze che spiccano a livello di lingua, abbigliamento e abitudini sono usate come mezzo per divertire lo spettatore creando straniamento, ma allo stesso tempo offrono spunti di riflessione riguardo a tematiche sociali attuali.

Una delle questioni che emergono è quella dei ruoli di genere. Il protagonista è, infatti, un samurai che proviene da un periodo in cui erano gli uomini a garantire la sopravvivenza e sicurezza della famiglia, mentre le donne rimanevano a casa e si occupavano dei figli. Invece, nella Tokyo moderna, Hiroko è una delle tante madri single che devono occuparsi contemporaneamente del lavoro, dei figli e della casa. Per Yasube non è facile comprendere il desiderio di indipendenza e di emancipazione di Hiroko, che ha divorziato proprio perché il marito le chiedeva insistentemente di smettere di lavorare. Quando il samurai afferma che per lui è normale e giusto che una donna rinunci alla carriera per occuparsi della famiglia, Hiroko risponde:

“Forse a Edo! Ma qui siamo a Tokyo.”

Nonostante le profonde differenze culturali, Yasube riesce ad abituarsi ai cambiamenti, grazie alla sua determinazione e disciplina tipiche di un samurai. I lavori domestici e la cucina diventano per lui un dovere da compiere al meglio e un modo per mostrare la sua riconoscenza, portandolo a diventare un punto di riferimento per la famiglia. Hiroko si affeziona e comincia a vedere in lui quello che il suo ex-marito non era riuscito ad essere. Per Tomoya, poi, quello strano personaggio venuto dal passato, con la sua spada e abbigliamento da guerriero, è la figura esemplare e rassicurante di cui aveva bisogno.

Un’altra questione trattata è, infatti, quella della paternità, che si pone quando Yasube viene chiamato a partecipare al “concorso di pasticceria per padri e figli“. Sebbene il regolamento prevedesse un legame biologico tra i concorrenti, Yasube rivendica il suo ruolo, convincendo i giudici che le cure quotidiane verso Tomoya sono sufficienti a definirlo padre.

Conclusioni

L’interrogativo che rimane è: passato e presente possono convivere? Yasube sceglierà di rimanere a Tokyo con la sua nuova famiglia, o finirà per tornare a Edo? E se rimarrà, in che modo? La risposta si trova nella pasticceria.

 

— di Cecilia Manfredini.


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