“Little Sister”, con titolo originale “Umimachi Diary”, è un film del famosissimo Kore’eda Hirokazu basato sull’omonimo manga di Akimi Yoshida.
Le tre sorelle Sashi, Yoshino e Chika, abbandonate ormai da 15 anni da entrambi i genitori, hanno imparato a vivere tranquillamente e in autonomia nella loro casa di famiglia a Kamakura. Questo equilibrio si scioglie quando ricevono un invito per il funerale del padre, che si era creato una nuova famiglia in un’altra città. Le sorelle si recano (più per dovere che per affetto) alla cerimonia, e qui incontrano la loro sorellastra, figlia del padre e dell’amante che rovinò il rapporto dei loro genitori, Suzu. Immediatamente Sashi, la sorella maggiore e colei che si è presa cura per tutti quegli anni delle due sorelle minori, sente di avere un’affinità particolare con la ragazzina. Anche Suzu, nel vedere da fuori il rapporto che le tre sorelle hanno e che lei essendo cresciuta da sola non ha mai avuto, vorrebbe costruire un legame con loro. Per questo motivo, Sashi sente di voler liberare Suzu da quella cittadina in cui ormai non restava più niente per lei, e la invita a vivere con loro a Kamakura. Da qui comincia la storia delle, ora, quattro sorelle.
Il tema principale è, ovviamente, quello della famiglia, in particolare della sorellanza. L’unicità della pellicola sta nella delicatezza e nella sensibilità con cui Kore’eda si addentra in questa storia: ci viene mostrata una visione sorprendentemente ottimista che colpisce come una ventata di aria fresca; non si tratta del ritratto di un dramma familiare che ci aspetteremmo, anzi, viene a mancare proprio quello scontro generazionale che fa sì che i componenti della famiglia vadano via via allontanandosi per poi ritrovarsi alla fine. Suzu viene subito inglobata all’interno del meccanismo familiare nonostante i dubbi e le incertezze che la sua infanzia le ha lasciato, e la sua somiglianza con Sashi fa sì che quest’ultima riservi delle premure esclusive nei suoi confronti. L’ambiente-casa risulta essere il luogo sicuro, in cui le sorelle non possono essere separate da niente e nessuno, ed è quando si fuoriesce da questo che le situazioni si complicano. In questo senso, sono presenti dei fattori esterni che spesso vanno a intaccare, ma mai gravemente, il rapporto delle sorelle: delusioni amorose, lavorative, disaccordi su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Le quattro sorelle, che rappresentano anche quattro modi di essere, sono semplicemente donne che si amano l’un l’altra nonostante i rispettivi difetti.
La regia di Kore’eda ci catapulta nella loro intimità, ci fa sentire parte di questo rapporto speciale. L’andamento calmo e privo di straordinarietà fa sì che il film sia il riquadro della quotidianità, e soprattutto ci dimostra che una storia non deve essere un susseguirsi di eventi drammatici o sbalorditivi per considerarla degna di essere raccontata.
Titolo originale: その男、凶暴につき Regista: Kitano Takeshi Uscita al cinema: 12 Agosto 1989 Durata: 103 Minuti Attori principali: Kitano Takeshi, Kishibe Ittoku, Sei Hiraizumi
RECENSIONE:
Violent Cop è un film del 1989 che segna il debutto di Kitano Takeshi come regista e interprete di un ruolo drammatico.
Azuma, impersonato dallo stesso Kitano, è un poliziotto della Squadra Omicidi, indisciplinato con i suoi superiori e rude con le reclute, che affronta la dilagante corruzione in città con metodi sicuramente poco ortodossi, non esita infatti a ricorrere alla violenza per risolvere questioni sia nella vita lavorativa che fuori.
Impegnato anche con una moglie malata, l’unica persona per il quale Azuma mostra un profondo affetto quasi possessivo è la sorella minore Akari, affetta da disturbi mentali. Durante le indagini di alcuni omicidi legati a un gruppo di narcotrafficanti, Azuma scopre che uno dei suoi superiori, Iwaki, è coinvolto nello spaccio di droga. Questa terribile scoperta insieme ad una serie di tragici episodi, tra cui il rapimento della sorella Akari da parte di un gruppo di spacciatori, portano Azuma a non riuscire a tenere più a freno la propria rabbia, che si trasforma in una follia omicida.
L’uscita di Violent cop suscitò grande sorpresa nel pubblico, per la prima volta si vedeva Kitano abbandonare il suo canonico ruolo di cabarettista e comico televisivo per impersonare il brutale detective Azuma. Ciò che stupì maggiormente fu proprio come riuscì a combinare elementi così distanti da tutto ciò che aveva rappresentato nella sua carriera finora, in un film tremendamente cinico e non certo privo di dettagli cruenti. Al centro della pellicola vi è il tema della Yakuza, molto caro al cineasta, misto ad alcuni tratti tipici del poliziesco.
Lo stile è caratterizzato da molte immagini statiche che si alternano a improvvise esplosioni di violenza. In tutto ciò viene inserita la figura di Azuma, inizialmente taciturna e noncurante di qualsiasi etica lavorativa, ma che con il succedersi degli eventi diventerà il motore principale di atti brutali. Si presenta come posseduto da una rabbia interiore auto-distruttiva che si nutre sia dei suoi gravi problemi familiari che della totale anarchia in campo professionale dove è mal visto da colleghi e superiori.
Una delle cause principali di tali comportamenti è anche sicuramente l’ambiente stesso, nichilista, dove regnano corruzione e immoralità, nel quale perciò non è possibile difendere la legge senza continue violazioni della stessa.
Continuiamo i video dedicati alla nuova rassegna in collaborazione con Asia Institute presentandovi il primo film coreano, Peppermint Candy, un film drammatico del 1999 diretto da Lee Changdong.
Kim Yongho vaga fra i suoi ex compagni di classe durante una rimpatriata e, dopo aver creato scompiglio fra la comitiva, decide di abbandonare il gruppo per raggiungere i vicini binari del treno. Al grido ‘voglio tornare indietro’ si scontra con la locomotiva in corsa, dando così inizio a una serie di flashback che ci raccontano, a ritroso, la dura vita del protagonista.
Gli eventi della vita di Yongho che ci vengono presentati nei vari capitoli del film, rappresentano alcuni dei principali avvenimenti nella storia della Corea di fine ‘900. La dura stretta del governo militare degli anni ’80 è espressa dalla perdita di innocenza del protagonista che lo porterà a diventare un cinico poliziotto. Allo stesso modo, il licenziamento dal suo incarico rispecchia la crisi finanziaria asiatica della fine del ventesimo secolo. Anche le proteste studentesche dell’inizio degli anni ’80 che portarono al massacro di Gwangju, vengono ritratte in uno dei momenti più drammatici della pellicola che segnerà la vita del protagonista.
Fra i tanti premi vinti dalla pellicola ricordiamo quelli al Festival Internazionale del cinema di Bratislava e quelli ricevuti dall’Associazione Coreana di Critici cinematografici.
Anche se si dovrebbe essere coreani per comprenderla a pieno, la pellicola rimane comunque una cronaca potente, esplicita ed estremamente emotiva della recente storia coreana magistralmente presentata dal regista. Potete guardare il nostro videoqui.
Vi aspettiamo quindi al cinema il 19 ottobre alle 21 al Cinema Rialto con Peppermint candy.I biglietti sono acquistabili cliccando qui.
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Vi ricordiamo, inoltre, che il database di tutti i sottotitoli dei nostri film sono a vostra disposizione qualora siate interessati a proiettarli all’interno delle vs manifestazioni. Oppure potete richiederci anche una nuova sottotitolazione! Basta scrivere a info@takamori.it!
Yōkame no semi, in inglese Rebirth, è un film drammatico del 2011 diretto da Narushima Izuru e ispirato al romanzo omonimodella scrittrice Kakuta Mitsuyo.
Spinta a rinunciare al proprio bambino a seguito della fine del rapporto extra-matrimoniale con Takehiro, Kiwako decide di rapire la bambina che l’uomo ha avuto con la propria moglie. Così, la donna inizia a crescere da sola la neonata, che ribattezza Kaoru, col desiderio di vivere la maternità che le era stata portata via.
Solo dopo 4 anni Erina viene ritrovata dalle autorità in una sperduta isola del sud del Paese e riportata ai genitori che però non riesce a riconoscere come tali. Con una madre ormai estraniata dal proprio ruolo e un padre sempre più distante, la giovane non è in grado di trovare pace e decide presto di lasciare casa per vivere da sola. È l’incontro con Chigusa, una giornalista freelance curiosa di conoscere il suo passato, che la porterà a rivivere il suo doloroso vissuto e a ritornare nei luoghi della sua infanzia.
Fra i numerosi premi ricordiamo quello per miglior film e regista alla 35esima edizione del Japanese Academy Prize e quello per migliore attrice ai Cinema Junpo Awards.
I continui salti temporali e la profondità dei personaggi permettono alla pellicola di approfondire la psicologia dei personaggi non catalogabili nelle dicotomiche etichette di ‘buono’ o ‘cattivo’. Comprendiamo il dolore di Kiwako nel rapire una bambina non sua e i profondi traumi che accompagneranno Erina per tutta la vita ma che le permetteranno anche di trovare un nuovo entusiasmo per il suo futuro di madre.
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37 Seconds è un film di genere drammatico del 2019 diretto dalla regista HIKARI. È stato presentato alla 69ᵃ edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino dove ha vinto il Premio CICAE (Confederazione Internazionale dei Cinema d’Essai) e il Premio del pubblico nella sezione Panorama. Nel 2020 è reso disponibile dalla piattaforma Netflix sottotitolato in italiano.
Il viaggio di Yuma
Yuma (Kayama Mei) è una mangaka che vive sulla sedia a rotelle a causa di una paralisi cerebrale infantile. La giovane è una scrittrice brillante, con ottime capacità grafiche e un grande immaginario visivo, ma lavora come ghostwriter. A prendersi il merito del suo lavoro è invece Sayaka, ragazza di bella presenza. Intrappolata dalla società e dagli obblighi familiari, sogna un giorno di riuscire a diventare un’autrice di successo e di condurre la sua vita secondo i propri termini. Dopo un colloquio con la redattrice di una rivista di manga erotici, che definisce le sue raffigurazioni di atti sessuali non abbastanza realistiche, viene esortata a tornare quando avrà fatto più esperienza. Ma Yuma è decisa a prendere in mano la sua vita, e tra battute d’arresto e una prima esperienza fallimentare con un gigolò, intraprende un insolito viaggio verso la libertà sessuale e la liberazione personale. Grazie all’aiuto dei suoi nuovi amici Toshiya (Daitō Shunsuke) e Mai (Watanabe Makiko), Yuma raggiunge l’emancipazione tanto desiderata, ma con essa tornerà a galla anche un traumatico segreto di famiglia.
Voci nascoste
I paesi di cultura buddhista sono stati più lenti rispetto all’Occidente a riconoscere i diritti delle persone diversamente abili. Secondo la concezione della reincarnazione, infatti, gli handicap sono visti come una punizione dovuta a malefatte compiute nelle vite precedenti, e il Giappone non fa eccezione. 37 Seconds si pone proprio l’obiettivo, come dichiara la regista, di dare voce a chi tendenzialmente viene nascosto dalla società e non solo; a parlare anche della sfera sessuale e del desiderio di emancipazione presente in queste persone, come in chiunque altro.
Due mondi
Nella costruzione di questo particolare Bildungsroman, HIKARI spezza il film in due sequenze. Una prima parte caratterizzata da uno stile abbastanza aggressivo, puro pop nipponico, in linea con l’immaginario dei manga proprio della protagonista. Le immagini della città o dei palazzi sono spesso avvicinate a immaginari infantili: gli ambienti sono filtrati dall’occhio della protagonista, con sovrapposizioni di elementi fantascientifici, creando interessanti ibridi di staticità e movimento. Il cambiamento dei toni della seconda parte è evidente: il ritmo della narrazione rallenta e si carica di emozioni intense, non più mitigate dall’ironia delle prime sequenze. La parte del viaggio in Thailandia pone una netta contrapposizione tra i paesaggi metropolitani giapponesi, vivaci e incalzanti come la prima parte del film, e il paesaggio naturale thailandese, che ben si sposa con il tono più contemplativo e meditativo di queste sequenze.
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